Parks, T. Italiani, AFA, p. 3-11 1. Esaminare la struttura del capitolo 2. Imparare parole nuove (allegato) 3. p. 3: esaminare l’uso di “si” 4. p. 9 – 10: esaminare i tempi del verbo 5. Tradurre: p. 7, secondo paragrafo da “Noi, intanto …” a “... spettacolo?” (righe sottolineate) 3 Come potrò mai dimenticare il nostro arrivo a Montalto? Come descrivere, a chi non è mai stato nel Veneto nel mese di luglio, l'atmosfera di quella giornata? Perché certamente il tempo ha svolto un ruolo preponderante nel susseguirsi degli avvenimenti. Non parliamo del caldo, non proprio. O meglio, il caldo è solo una parte del problema. Il termometro si aggira forse sui 32°, una temperatura non esagerata. Si sopportano anche i 36° sulla spiaggia o in montagna. Ma con questo caldo, oggi, non c'è sole, non un angolo di cielo azzurro, né colore, né aria. Sulla nostra testa - e pare di toccarlo con la mano - un grigiore uniforme, oppressivo, allo stesso tempo umido e granuloso, dove il sole è nascosto da qualche parte, quasi un'impronta, una sbavatura bionda. Né si avverte il minimo presentimento che questa strana atmosfera spugnosa e soffocante riuscirà ad addensarsi in un qualche nuvolone o in un acquazzone liberatorio. Non c'è un alito d'aria, non un sussurro di vento. In città non si nota forse, ma nel lasciarsi alle spalle Vicenza, diretti a ovest, di colpo ci si accorge di quanto sia ridotta la visibilità. Le colline a nord, fiorite di ciliegi in primavera, le vette frastagliate delle Alpi così drammatiche nella luce nitida e obliqua dell'inverno, è scomparso tutto. Non si vede oltre i 2-3 chilometri di distanza. E se - Dio non voglia - si svolta verso sud per addentrarsi nella Bassa padana, diretti al Po, dalle parti di Montagnana 4 o, più giù, di Rovigo, ci si imbatte in una grigia cappa di calore, una specie di nebbia brillante, così densa che il mondo vi apparirà incerto e sfocato, le altre macchine sembreranno fantasmi e gli alberi da frutto, il granturco alto e le piante di tabacco si mescoleranno, trasformando il paesaggio in un gigantesco minestrone fumante... Ma noi siamo diretti a Montalto, un paesino che giace ai piedi di quelle prime colline, ora invisibili, che segnano l'inizio della lunga scalata verso le Alpi. E stranamente sono proprio le Alpi, si sente ripetere in più occasioni, le responsabili del clima, nel senso che fungono da barriera a quei venti provvidenziali che in men che non si dica spazzerebbero via tutto ciò che rende insopportabile l'atmosfera della pianura: il lento accumulo dei gas di scarico, le esalazioni di migliaia di porcilaie e allevamenti di tacchini, e le tonnellate di antiparassitari che si aggiungono e si mescolano al ristagno d'aria su quelli che altrimenti, o in condizioni meteorologiche diverse, sarebbero scenari di squisita bellezza. È l'afa estiva, aggravata dalla presenza dello smog. Con la punta delle dita, ti stacchi la camicia dalle ascelle bagnate e avverti una sensazione spiacevole tra le gambe. In termini inglesi, la cosa che forse più si avvicina a questa esperienza è trovarsi compressi nella folla, all'ora di punta di un venerdì pomeriggio, su un autobus o - peggio ancora - in metropolitana, uno di quei giorni quando lo Standard è uscito a caratteri cubitali in prima pagina per annunciare un CALDO RECORD! In questo momento, però, stiamo seguendo la Ritmo bianca e arrugginita della nostra futura padrona di casa. Andiamo a vedere - e, speriamo, a prendere in affitto - un appartamento di 120 metri quadrati situato a Montalto, a pochi chilometri da Vicenza. Per questo motivo la nostra macchina, una vecchia e malconcia Passat color arancione, è stracolma di tutti i nostri beni materiali: il portabagagli, zeppo di scatoloni, si chiude a malapena con l'aiuto di varie corde elastiche, il manubrio di una bicicletta ha cominciato a slittare in avanti sopra il parabrezza. 5 Attraverso la campagna incolore e quasi invisibile, la strada si restringe, affiancata da muretti di cemento, fossi, pioppi polverosi, cipressi, vigne. Sorpassiamo di tanto in tanto qualche contadino, l'ampio didietro ben piantato sul motorino scoppiettante, senza casco, la sigaretta all'angolo della bocca. Qualche volta è una donna, la borsa della spesa nella morsa di ginocchia possenti, il fazzolettone stretto sui capelli grigi, l'aspetto imponente malgrado la precarietà dei movimenti, lo sguardo fisso e truce. Gli altri veicoli che ci azzardiamo a sorpassare con molta cautela sono un trattore, con un vecchio cane accucciato sul parafango, e un furgoncino a tre ruote, una specie di carriola motorizzata con una minuscola cabina, il manubrio al posto del volante, e un carico di rottami che traballa minaccioso. Nel frattempo, anche noi veniamo sorpassati da motociclette così bianche e veloci che il loro riflesso non sembra neppur posarsi sul mio specchietto retrovisore e i centauri chiusi nelle loro tute da astronauti svaniscono nella lontananza; e poi, ovviamente, siamo inseguiti dalla solita orda di Mercedes, Alfa, Lancia e BMW nere o metallizzate. È una miscela di traffico, una miscela sociale, che impareremo presto a conoscere. Forse a dieci minuti di strada dal centro città, oltrepassata l'immediata periferia, ci ritroviamo di nuovo in un'area abitata: dapprima una fila di case intonacate, poi lo slargo della piazza principale di Montalto. Qualche piccolo negozio, qualche cedro in un paio di rettangoli di verde stentato, una pompa di benzina con la pesa per i camion, il monumento ai caduti. Di colpo gli edifici ci si affollano attorno, la strada diventa un nastro sottile e i marciapiedi si restringono e s'innalzano fino a un metro da ciascun lato. Gambe tozze e gambe snelle sono appena a trenta centimetri dal finestrino del passeggero. Ma nessuna variazione di velocità nel traffico. Superiamo la strettoia, attraversiamo un ponticello, svoltiamo a sinistra e ci lasciamo alle spalle la mole sfacciata di un'enorme chiesa nuova, tutta vetri, ferraglie e mattoni rossi, poi altri ponticelli, fossi, corsi d'acqua finché, appena prima che la 6 strada si inerpichi verso la collina abbandonando il paese, la nostra padrona di casa mette la freccia a sinistra e ci ritroviamo in via Colombare. Stretta, lunga un duecento metri e perfettamente diritta, via Colombare si offre a noi in uno squisito connubio di periferia invadente e tradizioni contadine. È qui che il furgoncino e la Mercedes tornano entrambi a casa per pranzo. Lungo i lati della strada, le case sono tutte diverse: due, tre, quattro piani, una rivolta di qua, una di là, alcune centenarie, altre nuovissime, armoniose o dimesse, neglette o eleganti. E gli intonaci: rosa, azzurro, verde; molte con il nudo intonaco di cemento butterato, dello stesso colore spento e deprimente del cielo che oggi non promette niente di buono. C'è una nuova Alfa 75 parcheggiata accanto a un portone, e un nonno decrepito, con un cappello di paglia in testa, parcheggiato su una sedia traballante davanti a un altro. A inasprire la sensazione di scontro emblematico, all'altro capo della strada, dalla sua nicchia nel muro di cinta di un campo di ciliegi, una Madonna fissa il lungo nastro di asfalto rabberciato fino al lato opposto, dove il vecchio capannone di un deposito di bottiglie, ormai in disuso, sarà presto trasformato in un nuovo complesso abitativo. Non ci sono marciapiedi in via Colombare. I portoni delle case più semplici e antiche si aprono direttamente sull'asfalto bollente. I proprietari devono fare attenzione a fissare bene gli scuri delle finestre, c'è il rischio che se li porti via qualche camion (che ha smarrito la strada). Un giorno è toccato a un balconcino di pietra. E laddove le case più recenti degli ultimi arrivati dalla città e dei contadini arricchiti si scostano dal filo della strada e non di rado lasciano spazio a un giardino, quel po' di respiro che ne risulta si perde completamente per colpa dell'ossessione di circondarsi di ringhiere e recinzioni imponenti ed elaborate quale simbolo di ricchezza. Così pure i cancelli d'ingresso devono essere massicci e complicati e se possibile ancor più impressionanti con l’aggiunta di un portichetto di mattoni sormontato da un tettuccio di tegole. 7 E proprio accanto a questi cancelli - mentre stavamo parcheggiando la macchina – e sbucando dai portoni più umili, con le tendine anti mosche – mentre mettevamo piede a terra - ecco che gli abitanti della strada avevano cominciato, se non proprio a radunarsi, almeno a fare capolino: ima donna massiccia che stringeva in mano l'alibi di una scopa, un uomo che indugiava mentre spingeva il cane da caccia nel bagagliaio della sua auto, e ancora gente che non aveva altra scusa che i muri e le ringhiere ai quali si appoggiava. Aleggiava nell'aria la sensazione che fossero lì per osservarci, ma senza la minima ombra di malanimo né di ostilità. Con una certa curiosità, sì. E con un interesse preciso e palpabile. Noi, intanto, già ci sentivamo a disagio per il caldo e l'umidità. Molto probabilmente dovevamo apparire due pesci fuor d'acqua: da tempo avevamo capito che gli italiani non guidano macchine di color arancione (né tantomeno gialle o verdi) e che i proprietari di tali vetture sono osservati con tacita comprensione e immediatamente classificati come tedeschi, un epiteto più o meno sinonimo di cattivo gusto. Per di più, malgrado la nuova targa VI, sul retro era rimasto il vecchio adesivo internazionale GB e pertanto si poteva benissimo pensare che venissimo da, perché no, Gibilterra, come un passante aveva azzardato qualche giorno prima. Sì, eravamo consapevoli di tutto questo e con una certa allegra spensieratezza la cosa ci faceva anche piacere, perché è divertente fare gli stranieri, almeno per un paio d'anni. Eppure, benché lontani dalla città, una macchina arancione e un'aria smarrita e imbarazzata non giustificavano affatto la presenza di dieci o quindici persone che indugiavano sul portone di casa nel caldo afoso per osservarci. E per di più subito dopo pranzo. Erano forse al corrente di qualcosa che noi non sapevamo? O si aspettavano uno spettacolo? La nostra padrona di casa era nervosa, a scatti spingeva la chiave sbagliata nella serratura del cancello dell'edificio più moderno dell'intera strada: intonaco graffiato color 8 terra di Siena, spioventi immensi - e del tutto superflui -tipo villa californiana, portone in vetro e alluminio, terrazza e balcone per ciascuno dei quattro appartamenti, come quattro cassetti che qualcuno si è dimenticato di richiudere. La padrona non ha fatto parola su quelle presenze che ci scrutavano; la cosa non la sorprendeva. Si poteva quindi affermare che ciò che gli altri sapevano anche lei doveva sapere? E come mai aveva tanto insistito, con tono cosi poco italiano, per darci appuntamento proprio nell'ora in cui la gente andava a riposare, gli scuri accostati, stordita dal pasto pesante e dal caldo umido? Di colpo, senza che avessimo aperto bocca, forse per nascondere il nervosismo, questa donna minuta, dal viso sottile e intelligente con i suoi vivaci occhi azzurri, ci ha confidato che era stata dal ginecologo. Proprio quella mattina. Tutte le analisi che ti fanno fare al giorno d'oggi. Il tempo, il denaro. Specie quando poi si è costretti a rivolgersi ai privati, se si vuole ottenere qualcosa. Ma come si fa, davanti al rischio di certe brutte malattie? Sapete com'è. Le tremava la mano. Continuava a provare le diverse chiavi, spingendo anche le più improbabili nella serratura. Ho scambiato un'occhiata con mia moglie, ci siamo guardati intorno. Il sole non batteva a picco sulla strada, piuttosto era come se dall'intero scenario - l'asfalto rattoppato, le pietre e gli intonaci sgretolati dei muri, gli orti, le vigne, i rampicanti polverosi - si levasse uno sfrigolio luminoso. Ogni cosa abbagliava. "Eccoci!" Con uno scatto il cancello si è aperto. E in quel preciso istante, dal balcone sulle nostre teste, è apparsa Lucilla, che si è messa a gridare, anzi a urlare, strillare, strepitare. Lucilla era - ed è - una signora sulla settantina, piccola di statura, robusta, dal seno prosperoso, il faccione tondo, i radi capelli tinti di rosso, l'espressione di una donna che sa il fatto suo. Certo l'impressione su di noi, quel primo giorno a Montalto, non è stata per nulla mitigata dalla raggia che le contorceva i lineamenti. 9 Ecco che cosa aspettavano gli abitanti di via Colombare. La signora Lucilla si dimenava e urlava dal balcone. La sua voce riempiva l'aria nella strada stretta. Puntava il dito contro di noi, agitando il braccio come a scagliare anatemi e scomuniche. All'epoca ero in Italia da poco più di un anno, e se non potevo certo vantare eccezionali capacità linguistiche, tuttavia arrivavo a capire senza difficoltà l'80 per cento di quello che mi veniva detto direttamente e forse un 50 per cento (più che sufficiente) di quello che sentivo dire attorno a me. Ma quel pomeriggio giuro che non riuscivo a identificare una sola sillaba dei vituperi che la signora Lucilla andava sciorinando con tanta foga. Mi sono rivolto a Rita, in cerca di aiuto, ma mia moglie, benché italiana, non aveva capito molto più di me. Solo che non era il dialetto del luogo. La cosa mi ha rassicurato. Sul balcone sopra di noi la donna pareva galvanizzata dalla sua stessa furia. Con una forza straordinaria. Come se fosse decisa a sputare persino i denti contro di noi, nell'uragano delle sue urla. "Pazza," ha detto con fermezza la signora Marta. "Pazza." Si rifiutava di guardare in su e avallare la scenata. "Completamente pazza. È colpa dell'afa." Per sua fortuna ha trovato al primo colpo la chiave del portone di vetro e alluminio e siamo entrati: una scalinata di marmo color crema, una sensazione di freschezza, qualche pianta esotica, un abbassamento dei decibel, ma nemmeno un secondo da perdere. Di corsa ci siamo lanciati su per le scale, oltre i due appartamenti al piano rialzato, con i loro portoni funerei in legno scuro e i pomelli d'ottone. Di corsa fino al secondo pianerottolo, dove un'identica coppia di portoni si confrontava da un lato e dall'altro, come due scelte diametralmente opposte in qualche rito di iniziazione massonica. La padrona è andata a sinistra: di nuovo il mazzo tintinnante delle chiavi nella tensione crescente. Ah, finalmente! Ma no, c'era ancora la serratura di sicurezza. E in quell'istante, dal portone dirimpetto, è letteralmente esplosa Lucilla. 10 In seguito, la storia di Lucilla mi è parsa degna di un romanzone inglese del secolo scorso - un'infanzia di stenti e di duro lavoro, l'eredità insidiata, i ripensamenti in punto di morte, i testamenti bruciati o sepolti e altri ancora con firme false o postille aggiunte sotto minaccia con la complicità di medici corrotti a suon di mance generose — in breve, un mondo in cui il denaro non è mai affidato agli istituti di credito né alle società di assicurazione. Confesso che a un certo punto sono anche stato tentato di scrivere un romanzo su Lucilla, ma poi mi sono detto che nessuno ci avrebbe creduto e la critica mi avrebbe accusato di scimmiottare Dickens, di aver copiato brani interi da Middlemarch. Ma è proprio per questi paralleli che nel descrivere la scena successiva mi sembra naturale usare espressioni come "l'ira le sollevava il petto" perché il suo petto si sollevava davvero, e in modo impressionante; oppure "strabuzzava gli occhi e gonfiava le guance," perché veramente gonfiava le guance e strabuzzava gli occhi. Ancor più piccola di statura di quanto non immaginassi, e con un seno ancor più esuberante, Lucilla batteva a terra un piede armato di tacco a spillo quasi a voler scoccare scintille dal marmo. Le guance pesanti tremolavano. Il vestitino di cotone azzurro la conteneva a stento. Lacrime di rabbia le rotolavano sulle guance. A quel punto abbiamo cominciato a capirci qualcosa. Le sue urla si erano ridotte a una cantilena di "È mio, è mio, l'appartamento è mio!" Ha afferrato l'altra donna per un braccio, scuotendola selvaggiamente. Sputava saliva nel gridare. Noi, era come se non esistessimo. Meglio così. Ancora tutta presa ad armeggiare con le chiavi - ma perché non le dava a me! - la signora Marta ha perso la calma. Fino a quel momento aveva continuato a fare la parte della persona civile davanti a quella furia scatenata, ma non ha resistito a lungo ed è sbottata a gridare anche lei. "Lei ha bisogno del dottore, dello psicologo!" E nell'ansia di sottrarsi a quella scena sgradevole ha dato un colpo energico alla serratura di 11 Silenzio. Sorpresa. Poi la voce di Lucilla, "Grazie, Gesù, grazie!" Dietro la schiena, dopo un rapido segno della croce, le sue mani annaspavano per allentare il reggiseno o il busto. Era paonazza in volto: "Maria santissima, grazie!" La chiave si era rotta. Non potevamo entrare. Era un segnale divino. Era la conferma delle sue rivendicazioni patrimoniali. Piangeva di gioia. La signora Marta ci ha guidati in una rapida ritirata giù per le scale. Mentre ci allontanavamo in macchina, gli spettatori già si avviavano verso la palazzina per gustarsi tutti i particolari della battaglia.