Parks, T. Italiani, I fantasmi (p. 35-46) 1. Imparare parole nuove (allegato) 2. Individuare le forme del congiuntivo e spiegarne l’uso 3. Individuare nel testo, p. 35-37, verbi transitivi e verbi intransitivi analizzando la struttura della frase 4. Individuare nel testo le forme del passivo 5. Riconoscere nel testo esempi di frase predicativa, frase presentativa analizzando la struttura delle frasi individuate Ci sono voluti due giorni, caldissimi, interminabili. Abbiamo fatto amicizia con le ragazze di Bonazzi, il supermercato del paese, dove siamo tornati per ben tre volte per raccogliere gli scatoloni necessari e così abbiamo trasferito un intero bagaglio culturale dall'appartamento numero quattro su nel solaio soffocante sotto il tetto. Avremmo dovuto forse prestare maggior attenzione agli oggetti che stavamo spostando alla cieca? Avrei forse imparato qualcosa di più sull'Italia se avessi letto attentamente tutti i diari e le lettere che ci sono passati per le mani? Forse sì. Ma le vecchie cianfrusaglie, i vecchi indumenti, le vecchie medicine, le vecchie scarpe, scartoffie, conti, ricevute, giornali, stracci, saponi e dopobarba, liste della spesa, candele votive, libri tascabili, cappelli militari, cofanetti vuoti, stoviglie da campeggio, le cataste di lattine piene di chiodi, viti e dadi di ogni forma e dimensione, di solito hanno un effetto molto negativo sul mio morale. Laddove un altro saprebbe trovare in ciascun oggetto un significato o una rivelazione portentosa, io mi sento semplicemente schiacciare da un senso di futilità. Non posso fare a meno di immaginare montagne e montagne di simili reliquie moltiplicate per ogni casa in ogni angolo del mondo - diverse a seconda del luogo, ciascuna contraddistinta dalla propria matrice culturale, dalle caratteristiche che stanno a significare questo o quel valore, ma tutte, in fin dei conti, nient'altro che detriti, le scorie della vita che 36 aspettano una mano decisa, pronta a far piazza pulita — e io non chiedo altro che sbarazzarmi al più presto della loro presenza. Non c'è spazio per me nel campo dell'archeologia o dell'antropologia. Pertanto quello che ho salvato dagli scatoloni del supermercato per esaminarlo un istante, e quello che oggi si riaffaccia alla memoria mia e di mia moglie riguardo i particolari di quella ciclopica operazione di sgombero, non sono altro che frammenti, indizi, brevi squarci nell'esistenza, nel carattere e nei tempi di Lamberto Patuzzi — ovvero il "professore" come avremmo appreso a chiamarlo in seguito - e di Maria Rosa, sua moglie, che ancora vegetava in qualche casa di riposo. Se avessimo saputo, allora, quanto affascinanti si sarebbero rivelati questi personaggi, forse avremmo esaminato con maggior interesse quelle vestigia della loro lunga vita. La signora Marta ci aveva detto che gli zii amavano molto viaggiare e infatti l'immensa libreria del salotto, dai vetri smerigliati e l'impiallacciatura piena di bolle, si è rivelata zeppa di pieghevoli illustrati, tanti da mandare avanti un'agenzia di viaggi per un paio di mesi al culmine della stagione - se non fosse stato per il fatto che quei pieghevoli illustrati risalivano a dieci, venti, addirittura quarantanni prima. I più vecchi, accatastati in ordine alfabetico, esaltavano pensioni economiche sulle vicine località montane dei Sette Comuni o sulla costa adriatica, con fragili illustrazioni bianche e marrone che davano risalto alla rigogliosa cementificazione degli anni Cinquanta. Toscana, Elba, Abruzzo, Roma e Sicilia seguivano da vicino, come pezzi di un puzzle che andava allargandosi rapidamente ed appariva ora ricco di colori - i mari in technicolor e le specialità gastronomiche dalle tinte sgargianti - finché, di pari passo con l'orgia consumistica degli anni Sessanta e la passione italiana per l'automobile, comparivano i primi dépliants di alberghi in Austria, Svizzera e Jugoslavia. Decine e decine di opuscoli illustrati. I reperti più recenti sfoggiavano immagini seducenti delle Azzorre e le Bahama e i viaggi organizzati per i pensionati in Florida. 37 Era chiaro che avevamo sotto gli occhi il materiale per un paio di tesi di laurea racchiuso in quella libreria, ma tutto è finito, senza pietà, negli scatoloni di Bonazzi. Avevamo fretta. Un saggio sulle abitudini vacanziere degli italiani come espressione dello sviluppo economico del paese negli ultimi trent'anni non era quello che avevamo in mente. Ma di colpo, da sotto i dépliants, è affiorato un album fotografico. Chi sa resistere alla tentazione di gettare un'occhiata alle fotografie? Tanto amava la strada e la sua macchina il nostro zio Patuzzi che doveva aver preso l'abitudine di costringere qualcuno, senz'altro Maria Rosa, a scattargli istantanee accanto ai più esotici cartelli stradali, come altri amano immortalare la propria presenza sulle vette alpine. Eccolo qui, è lui, in bianco e nero, con la bella chioma virile spazzolata all'indietro, il naso sottile e aquilino - segno d'intelligenza — lo zio Patuzzi arriva a Trento con gli scarponi da montagna attorno al collo e lo zaino in spalla: lancia lo sguardo fiducioso e soddisfatto di qualcuno che è stato appena ammirato per un suo commento sagace, o che si è appena alzato da tavola dopo un lauto pranzo. 1937, dice una scrittura spigolosa. Ed eccolo di nuovo, adesso a colori, un po' stempiato ma sempre sportivo, con i pantaloni di lana e una giacca a vento verde, accanto a un cartello stradale che dice WIEN. Sfogliamo le pagine dell'album: paesini di montagna, cartelloni degli alberghi, segnaletica autostradale. Infine, tra le foto più recenti e straordinarie, ecco un Patuzzi molto invecchiato e stagionato, un po' incurvato, appoggiato al bastone, vicino a un cartello stradale dove nero su bianco si legge PRAHA e, accanto a lui — sorpresa! — una faccia che ben conosciamo, Lucilla. Le cose ci appaiono sotto una nuova luce. Più un ménage che un condominio, forse? Che non abbia addirittura ragione la nostra vicina sulla proprietà dell'appartamento? O stiamo già facendo illazioni? Dai recessi più bui dell'armadio emergono dei veri e propri reperti da collezionista risalenti agli anni della guerra: un berretto militare, un libro di scuola ("Tema: 38 Descrivi i tuoi sentimenti - di ammirazione e riconoscenza - nel contemplare un ritratto del Duce") e una pila di Signal, la macabra rivista della propaganda nazista. Formato rivista popolare, in tedesco, con la traduzione italiana: una propaganda di tipo fumettistico rivolta soprattutto... beh, contro gli inglesi. "Bombe sull'Inghilterra!", farnetica un titolone. È per questo motivo, mi soffermo a riflettere ogni tanto, che i giovanotti del bar provano ancora una certa rivalità nei nostri confronti? Spero di no. E che cosa avrà fatto l'amico Patuzzi durante la guerra, oltre a infiammarsi con quella prosa esaltante? (Più tardi avremmo appreso che in quegli stessi anni Lucilla aveva conosciuto la miseria più nera e addirittura la fame nella sua città natale.) Ancora più in fondo (ho detto che l'armadio era enorme, senza esagerazione) era riposta una raccolta più innocua - e ben più cospicua - di riviste dal titolo enigmatico di Nat. Una breve occhiata alla pagina interna e abbiamo capito che si trattava di Nuova alta tensione, e sono bastati pochi secondi a sfogliare le riviste per renderci conto che tale tensione doveva essere eccitata soprattutto nella zona del basso ventre, grazie alle pose provocanti - fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta - di celebri bellezze, come Brigitte Bardot, Jane Fonda, Sophia Loren e un'infinità di nomi sconosciuti (mia moglie è riuscita a scovare una giovanissima Raffaella Carrà, il sorriso incorniciato di riccioli bruni). Ma le foto erano talmente caste e ingenue - e vistosamente ritoccate — che veniva spontaneo chiedersi come faceva a scaldarsi davanti a quelle finte moine il pubblico che aveva conosciuto l'immane sconvolgimento della guerra e dei bombardamenti. Le infilava, quelle riviste, il nostro zio Patuzzi, tra le pagine delle pubblicazioni fiscali mentre usciva dal giornalaio? Leggeva le cronache rosa delle bellezze al bagno per spezzare la monotonia delle partite doppie e delle ritenute che si accatastavano sulla monumentale scrivania che abbiamo trovato nella stanza da letto piccola, una scrivania che chiaramente vantava una storia ben più lunga di quella casa? In 39 quale momento esatto entrava in scena Lucilla? Sotto la fotografia di una ragazza del sud, minuta, i lineamenti delicati, il cronista riferiva ancora, venticinque anni dopo, che Mariangela Rainaldi, cattolica praticante, lavorava come cameriera in un locale notturno ma aspirava alla carriera di attrice. Dal comodino di Patuzzi è saltato fuori un calzascarpe lungo 50 centimetri, un catechismo, un cappello da alpino, un tubetto di pomata per le emorroidi - scaduta da oltre un decennio - un portaritratto ovale con la foto di una Maria Rosa dallo sguardo torvo, e uno strano aggeggio con una specie di cappio da una parte e una pesante palla di piombo cucita in una guaina di cuoio. A che diavolo poteva servire? Adesso però si presentava il problema dei rifiuti. Non che volessimo gettar via oggetti preziosi, come i diari e le agende zeppe di addizioni e sottrazioni a otto o nove cifre, le risposte alle lettere che l'attempato fratello di Maria Rosa aveva scritto a una decina di agenzie matrimoniali a Parigi... no, tutto ciò che meritava di essere conservato per occhi più curiosi e pazienti dei nostri sarebbe stato fedelmente preservato. Allo stesso tempo, però, erano tornati a galla anche un gran numero di vecchi spazzolini da denti e prodotti per l'igiene personale che risalivano ai primi anni Settanta e di cui nessuno avrebbe mai sentito la mancanza. A chi interessava sapere che il "professore" si lavava i denti con la Pasta del Capitano? Non riuscendo a individuare nulla all'interno o all'esterno dell'appartamento che somigliasse seppur vagamente a una pattumiera, siamo scesi in punta di piedi al piano di sotto per presentarci ai Ballardini, fratello e sorella, che occupavano l'appartamento sotto quello di Lucilla (all'origine destinato a sua figlia e rifiutato). Speravamo che loro almeno avrebbero potuto illuminarci. Abbiamo bussato delicatamente alla porta. Una voce ci ha chiesto chi eravamo, perché in Italia nessuno si sogna di aprire la porta di casa finché non gli giunge una dichiarazione di identità. La sicurezza, anche nei paesini più 40 sperduti, raggiunge e supera i livelli di New York. Ci siamo presentati. La chiave ha girato nella serratura una volta, due e tre, e finalmente la porta si è aperta. È apparsa una signora sulla quarantina, alta e un po' robusta, ma senz'altro attraente, malgrado gli occhiali dalla montatura severa. Portava una tuta da ginnastica rosa, e subito ha insistito per farci entrare. Ebbene, eravamo tutti nel Veneto, nel medesimo luogo, persino nello stesso edificio, in un appartamento che in termini strutturali era il riflesso esatto del nostro, come visto allo specchio, eppure nel metter piede in casa Ballardini ci siamo trovati di colpo in un mondo diverso. Tutto qui era moderno, sobrio, elegante, immacolato, suppellettili discrete, litografie alle pareti, un divano basso e comodo. Se c'era qualcosa in comune con il nostro alloggio, e con tante altre case che ho conosciuto nel Veneto, si trattava del desiderio di imporre all'ambiente una certa formalità, una certa composizione meditata, rituale e cerimoniosa in ogni locale. Gli inglesi ricorrono alla parola "cosy" per descrivere le loro case, suggerendo un'atmosfera allo stesso tempo comoda, calda e accogliente, quasi un soffice nido dove ci si stringe gli uni agli altri, beati, come tanti uccellini. Questo aggettivo, però, risulta intraducibile in italiano, per la semplice ragione che nessun italiano vorrebbe mai qualificata in tal modo la sua casa o i suoi arredi. È bastata un'occhiata per capire che l'ambiente domestico dei Ballardini era stato studiato e predisposto con estrema cura e attenzione, perché nulla vi appariva casuale né tantomeno accidentale. Dovunque le linee si incontravano e divergevano formando angoli nitidi e raffinati, calcolati con precisione. L'esatto opposto del mondo esterno. Giancarlo e Orietta - fratello e sorella, lui è vedovo con un figlio adolescente - ci sono apparsi guardinghi e rigidamente cortesi quanto i loro arredi si ispiravano alla misura e al buon gusto. Sì, ci hanno invitato, e con grande gentilezza. Anzi, hanno proprio insistito. Le regole della cortesia lo esigevano. Ma non era chiaro di che cosa 41 avremmo parlato. Certo non volevano farsi coinvolgere immediatamente in quelle che per noi erano questioni di vita o di morte, come l'ostilità di Lucilla e il cane che abbaiava la notte. Soprattutto Giancarlo, più piccolo della sorella e con due baffi nerissimi - dei quali mi hanno colpito soprattutto la geometricità e la fatica seria e minuziosa che la loro cura indubbiamente richiedeva - non tradiva emozioni. La spazzatura, ci ha spiegato, veniva collocata in un grande bidone condominiale che si depositava al mattino davanti al cancello. Lucilla però aveva fatto sparire il bidone al nostro arrivo, dichiarando palesemente che non desiderava estendere anche a noi il godimento di quel bene comune. I Ballardini non hanno fatto alcun commento su questo stato di fatto. Ovviamente, dovevamo procurarci un bidone per conto nostro. Ho chiesto poi del garage di cui ci aveva parlato la signora Marta. Magro, serio in volto, ma anche attraente e con un non so che di accattivante e fanciullesco dietro l'enigma di quei baffi, Giancarlo mi ha fatto strada giù per le scale, nel seminterrato dove, a destra, un locale grande quanto un intero appartamento fungeva da garage condominiale. Sono rimasto subito colpito dalla pulizia ineccepibile delle mattonelle rosse del pavimento: non c'era una macchia d'olio, le impronte delle gomme erano quasi invisibili. Per quanto bello, quel tipo di pavimento ai miei occhi inglesi non sembrava il più indicato per un garage. Tra i pilastri di cemento erano stati contrassegnati quattro posti macchina. Da una parte riluceva la Lancia Prisma di Giancarlo, con carburatore a doppio corpo; davanti a noi c'era una vecchissima Cinquecento, anch'essa bianca. Gli altri due spazi erano vuoti. Ho chiesto qual era il mio. Giancarlo ha detto che quello a destra era assegnato all'appartamento numero due, e perciò a Elvira (la cognata di Lucilla), e lo spazio a sinistra della Prisma, il più lontano, era quello dell'interno quattro, ovvero il nostro. Però, ci ha ammonito, né 42 l'uno né l'altro era mai stato usato dal giorno della morte dei legittimi proprietari: Lamberto Patuzzi e Gildo Zandonà. In segno di rispetto. Mi ha indicato i crocifissi sui pilastri, accanto ai posti macchina. Lucilla, ha detto, era superstiziosa ma in fin dei conti non era cattiva. Era solo questione di tempo. Mi sono affrettato a dichiarare che se l'uso del garage equivaleva a una battaglia con Lucilla, grazie infinite ma non m'interessava, anche perché la carrozzeria della mia auto non meritava tanti riguardi. Giancarlo non ha mosso ciglio alla mia battuta e a ripensarci mi rendo conto quanto siano sciocche e fuori posto queste spiritosaggini in una nazione di adoratori dell'automobile. Un uomo che ha investito quasi un anno di stipendio nell'acquisto di una Prisma metallizzata con doppio carburatore forse non ama sentirsi dire da un altro che è felice della sua Passat arrugginita, vecchia di dieci anni. E per di più di colore arancione. Prima di tornare dalle signore al piano di sopra, Giancarlo ci ha tenuto a farmi visitare la taverna condominiale. La taverna - cosa sconosciuta in Inghilterra - è un locale situato accanto alle cantine e di cui nessuna villetta o palazzina moderna può fare a meno: la sua funzione è quella di ospitare le feste. Quando è condominiale, la taverna è di solito ampia, con un bel caminetto spazioso, ideale per le grigliate: completano gli arredi, per lo meno in questa regione, una selezione di vini accuratamente privi di etichetta, mobili di stile tirolese, un lungo tavolo per numerosi commensali, un piccolo recesso con lavandino e fornelli e forse anche un giradischi. Sulle pareti -e così era in via Colombare - le decorazioni devono includere manifesti sbiaditi con paesaggi di montagna, vecchi trofei di caccia (sul muro, nel nostro caso, campeggiava una pelle di puma - falsa?), ed altri arnesi come spade e fucili arrugginiti. In via Colombare facevano bella mostra i vecchi sci di legno di Patuzzi, incrociati sul muro, con i loro bravi bastoncini, risalenti forse a quarant'anni prima. 43 Bisogna osservare che le vecchie case non hanno la taverna, solo quelle nuove. Perché agli occhi dell'italiano contemporaneo la taverna rappresenta il mito del passato, un esercizio di adattamento urbano e di nostalgia atavica. La taverna sotterranea — dall'ampio locale condominiale al ridicolo bugigattolo delle villette a schiera — si propone di ricreare l'atmosfera di quelle cavernose cucine contadine dal lungo tavolo carico di selvaggina, polenta e bottiglioni di vino che ancora oggi tanto spazio occupano nell'immaginario collettivo di questa nazione. Scoprirete così che in molte taverne, spesso sotto le più anonime villette o palazzine prefabbricate, i proprietari hanno installato nella parete un focolare antico in pietra serena oppure, se non possono permettersi quella spesa, almeno un'ottima imitazione, corredata di uno spiegamento impressionante di attrezzi di ferro battuto per attizzare il fuoco e grigliare carne e polenta. Anche i tavoli devono essere o sembrare antichi, e non deve mancare il seggiolone del nonno, con lo schienale alto e i braccioli, così scomodo che nessuno ci si siede mai. Quando un paio di famiglie del condominio decidono di invitare gli amici a mangiare in taverna (a Natale, Capodanno e in altre ricorrenze), ecco che dagli arredi - in particolare le panche di pino e le finte lampade a petrolio - tutti traggono una sensazione di celebrazione festiva e di esaltazione dei valori tradizionali, la soddisfazione legittima di godere dei frutti del proprio lavoro con amici e familiari attorno al focolare. Come a dire che, nello spazio di una sera, anche l'impiegato o il commerciante o ancora il rappresentante farmaceutico può regalarsi il salutare riposo del contadino dopo la vendemmia; come se, in un subconscio junghiano, alla taverna venga affidato, per esservi preservato e custodito, un passato primitivo con tutte le sue ricchezze. Nella mia esperienza posso affermare che, come nei sogni, la taverna è infinitamente migliore nell'immaginazione del sognatore che nella realtà. E ben più felice il vicentino mentre sceglie con cura i suoi attrezzi per il cami- 44 netto e il barbecue dagli scaffali del Brico-Center che non lo stesso individuo, più tardi, quando armeggia stizzito attorno al fuoco. Vi invitano a una festa in taverna e trovate uno scantinato umido, senza riscaldamento e che puzza di chiuso, perché non è stato aperto dall'ultima ricorrenza, e rischiate di beccarvi un malanno anche se fuori non si respira per il caldo. La canna fumaria non tira bene, il locale si riempie di fumo. Compare una miriade di piatti diversi, naufraghi di vecchi servizi usati nel corso degli anni; si beve da bicchieri opachi e polverosi che nemmeno a lavarli vengono puliti, forse perché non c'è acqua calda al lavandino della taverna. Le posate sono tutte di fogge e dimensioni diverse e spesso mancano alcuni pezzi. Il coltello non taglia bene. Le conversazioni rimbombano dalle pareti spoglie. Dopo un'ora circa, proprio quando il vino e il profumino delle pietanze cotte sulla brace cominciano a sciogliere il gelo, ecco che si presenta il guastafeste del condominio, a lagnarsi che il rumore gli impedisce di seguire la sua telenovela preferita, l'ennesimo episodio di Dynasty, Beautiful o altro. Si passa quindi a rassicurarlo, tra molte scuse e inviti a unirsi ai commensali (perché si è tra amici e tutti si vogliono bene), e subito dopo il rompiscatole viene completamente ignorato e la sua comparsa non lascia altra traccia che un po' d'irritazione. Tutti a tavola, si mangia: fate del vostro meglio per staccare la polpa dalle ossa minuscole di merli e passerotti e sotto i molari sgranocchiate, come vi viene caldamente consigliato, anche le testoline per gustare la parte migliore. E gli uccellini con la polenta sono davvero squisiti. Ma - ahimè - così piccoli. Nel frattempo, attorno al tavolo, ognuno si fa in quattro per divertire gli amici. Si ricomincia con le barzellette sui carabinieri (l'angolo retto che bolle a 90°), le penose odissee di ordinaria burocrazia ("quando ci sono ritornato per la terza volta mi hanno detto che sì, c'erano tutti i documenti ma il certificato di nascita non era più valido perché era scaduto il giorno prima..."). Risate, espressioni di sdegno, si scuote la testa, si riempiono i bicchieri. "No, non mi dire di no, 45 devi prendere un'altra braciola, è squisita, tanto l'ho già cotta." E la braciola cade sul piatto, un po' bruciacchiata e dall'aspetto legnoso, ma tant'è, basterà innaffiarla con un altro bicchiere di vino. Gli accordi della fisarmonica si alzano dal giradischi. Sei coppie si abbracciano nel ballo liscio in 3 metri per 3. Risate e grida d'incoraggiamento. Qualcuno si è scottato con l'attizzatoio che era stato dimenticato infilato nella brace. Passano le ore. È la taverna che sembra innescare questo comportamento, questa voglia di buon umore a tutti i costi. Infatti, quasi tutte le feste in taverna hanno il sapore di quelle veglie di Capodanno quando dentro di te senti che non c'è nulla da celebrare e vorresti restartene in santa pace a casa tua. Ma c'è mia moglie che non manca mai di ricordarmi che sono un gufo, un misantropo. Lei si diverte un mondo in queste occasioni. In mia difesa, vorrei solo aggiungere che qualunque sia lo scenario, gradisco sempre un bicchiere di vino, so riconoscere anche a occhi chiusi quale varietà locale sto bevendo e se solo fosse possibile godermelo in casa mia davanti a un piatto fumante di tortellini, seguito forse da una bistecca di cavallo e per terminare un assaggio di tiramisù appena estratto dal frigorifero, mi sentirei davvero in paradiso. Spalancata la porta metallica, invitandomi sulla soglia per gettare un'occhiata all'interno, Giancarlo Ballardini tradiva apertamente la sua debolezza per le taverne. Forse per lui la taverna rappresentava un disgelo quasi impensabile, l'occasione per accantonare le più spinose convenzioni sociali a favore della semplice maestria con il forchettone del barbecue, il desiderio di uscire da dietro il parallelepipedo dei baffi abbandonandosi alla gioia schietta della convivialità. Ad ogni modo, nel mostrarmi quel tetro stanzone (ricordo corna di cervo un po' sbilenche sulla parete frettolosamente imbiancata), il suo sguardo brillava d'entusiasmo. Mi piaceva il barbecue? E le melanzane alla griglia? E la bruschetta? Ho detto di sì, sì, certamente. E mi sarebbe piaciuto imbottigliare il vino? I colleghi di lavoro avevano l'abitudine di mettere insieme 46 le ordinazioni e far venire giù in città un camion carico di damigiane dal Friuli. Forse m'interessava dividere con lui una damigiana di cabernet o di prosecco, dovevo dirglielo per tempo. Si poteva comprare in ottobre e imbottigliare in primavera. Il prezzo era ragionevole e la qualità eccellente. Gli ho subito detto di contare su di me, mi piaceva provare cose nuove. Quando ci siamo avviati alla scala per tornare di sopra, ho avuto la netta sensazione di aver trovato un ottimo vicino. Poi, sgattaiolando davanti al portone di Lucilla per rifugiarci in casa nostra, abbiamo sentito squillare per la prima volta il telefono. La signora Marta, forse, che si era scordata di dirci dove si trovavano i tesori della letteratura e le lampadine di scorta. Oppure una delle tante scuole o agenzie alle quali ci eravamo affrettati a comunicare il nuovo numero di telefono. "C'è il dottor Patuzzi?" ha chiesto la voce fiduciosa di un anziano. Mi sono raggelato. "Parla Giordano. Per una questione di documenti." "Ma il dottor Patuzzi è morto. Già da un paio d'anni se non di più." "Ma il suo nome è nell'elenco telefonico," ha obiettato la voce. "È deceduto, glielo assicuro." "Ah. In questo caso non insisto." E ha riattaccato. Rita ha detto: "Se senti una voce che ti dice 'Parla Patuzzi' allora sì che c'è da preoccuparsi." Eppure in un certo senso mi è sembrato che dopo aver appena raccolto e impacchettato tutte le cianfrusaglie di quell'uomo, letto qualcuna delle sue lettere, sfogliato le sue riviste predilette, ammirato i suoi sci di quando era giovanotto e contemplato il crocifisso accanto al suo posto macchina, a questo punto non c'era da meravigliarsi se da qualche angolino spuntava fuori l'ombra di un fantasma.