Moravia, A. Racconti romani. Il tesoro, pp. 344-349 1. Esaminare e tradurre in ceco strutture preposizionali delle locuzioni avverbiali e aggettivali 2. Esaminare l’uso dei tempi verbali nelle pp. 344 e 345 3. Esaminare le valenze dei verbi e analizzare la struttura delle frasi nelle pp. 344 e 345 4. Esaminare la posizione dei complementi avverbiali nelle pp. 344 e 345 344 IL TESORO Nell'osteria fuori Porta San Pancrazio dove ero garzone, capitava in quel tempo un ortolano che tutti chiamavano Marinese o che fosse di Marino, o, piuttosto, che gli piacesse soprattutto il vino di Marino. Questo Marinese era vecchissimo, neppure lui sapeva quanti anni aveva. Beveva, però, più di tanti giovani e quando beveva chiacchierava con chi voleva ascoltarlo o magari anche solo. Noialtri garzoni di osteria, si sa, quando non serviamo, ascoltiamo i discorsi dei clienti. Marinese, tra tante falsità, raccontava spesso una storia che sembrava vera: che i Tedeschi avevano rubato nella villa di un principe, poco lontana, una cassetta di argenteria e che l'avevano sotterrata in un luogo che sapeva lui. Qualche volta, se era proprio ubriaco, lasciava capire che quel luogo era il suo orto. Comunque, diceva che, se l'avesse voluto, avrebbe potuto diventare ricco. E lui un giorno avrebbe voluto. Quando? "Quando sarò vecchio e non avrò più voglia di lavorare," disse una volta a qualcuno che glielo domandava. Che era una risposta buffa perché, a vederlo, gli si davano almeno ottant'anni. Insomma, cominciai a pensare a questo tesoro e ero convinto che ci fosse perché qualche anno addietro, durante, appunto, l'occupazione, il furto era veramente avvenuto e il principe non aveva mai più ritrovato la sua argenteria. Pensandoci, mi faceva rabbia che fosse in mano di Marinese, il quale, uno di quei giorni, sarebbe morto di un colpo nella sua baracca e allora addio tesoro. Provai a ingraziarmelo, ma il vecchio, da vero delinquente, si fece offrire il vino ma non aprì bocca. "Anche se tu fossi figlio mio" mi disse alla fine solennemente "non te lo direi... sei giovane: lavora... di soldi hanno bisogno 345 i vecchi che sono stanchi e non ce la fanno più." Finalmente, disperato, mi confidai con l'altro garzone, Remigio, un biondo scialbo, più giovane di me. Subito si infiammò ma scioccamente, da sciocco qual era, e cominciò a fare i castelli in aria: diventiamo ricchi, mi compro la moto, apriamo insieme un bar e così via. Gli dissi: "Intanto bisogna trovarlo questo tesoro... e poi non montarti la testa... facciamo quattro parti... tre ne prendo io e tu una... va bene?" Lui disse che stava bene, sempre esaltato. E ci demmo l'appuntamento per la notte stessa, dopo la mezzanotte, all'imboccatura dell'Aurelia antica. _ Era maggio, ai primi, e con quel cielo stellato e quella luna splendente che faceva vedere le cose come di giorno, in quell'aria dolce, non mi pareva neppure di fare una cosa proibita, co me sarebbe aggredire un povero vecchio: m'illudevo che fosse tutto un gioco. Prendemmo per la Via Aurelia, tra quelle mura così vecchie, dietro le quali ci sono orti e giardini di conventi. Io portavo una vanga per il caso Marinese non avesse voluto darci la sua, e a Remigio, tanto per fargli fare qualcosa, gli avevo dato un paletto di ferro. Avevo comprato a piazza Vittorio una rivoltella e un caricatore, ma ci avevo messo la sicura: non si sa mai. A dire la verità, anch'io mi ero esaltato all'idea del tesoro e adesso mi pentivo di averne parlato a Remigio: era una parte di meno che avrei potuto prendermi. Inoltre lo sapevo chiacchierone e, se parlava, il gioco finiva in galera. Questo pensiero mi tormentava mentre camminavamo lungo i mura. Così, ad un tratto, mi fermai e tirando fuori la rivoltella, che non gli avevo ancora mostrato, dissi: "Guarda che se poi parli, io ti ammazzo." Lui disse tutto tremante: "M, Alessandro, per chi mi prendi?" Dissi ancora: "Qualche cosetta bisognerà pur darla a Marinese perché ci abbia anche lui il suo interesse e non ci denunzi... vuol dire che gliela darai tu sulla tua parte... è inteso? " Lui disse di sì e io rinfoderai la pistola e riprendemmo a camminare. Poco più giù, sulla destra, c'era un portale antico, con le colonne e una lapide latina sul frontone. Il portone era dipinto di verde, tutto stinto e sconnesso; dietro quel portone, come sapevo, c'era l'orto di Marinese. Guardai per la strada e, visto che non c'era nessuno, spinsi il portone, che era aperte ed entrai, seguito da Remigio. Come mi affacciai all'orto, sebbene non venissi per ortaggi debbo dire che quasi mi lasciai sfuggire un grido di ammirazione 346 zione. Che orto. Davanti a noi, in quella luce forte e bianca della luna, si stendeva l'orto più bello che avessi mai visto. I fossatelli luccicanti si allungavano dritti, come se fossero stati tracciati con la squadra; tra un fossatello e l'altro, le insalate, in fila, parevano risalire in processione, folleggiando al chiaro di luna, verso la baracchetta di Marinese che si intrav-vedeva su su, in fondo all'orto. C'erano lattughe giganti, di quelle che, dall'erbivendolo, ne basta una per riempire la bilancia; belle piante di pomodoro, con i loro sostegni di cannucce e, tra le foglie, i pomodori ancora verdi ma già grossi da scoppiare; verze grandi come teste di bambini; cipolle alte e ritte come spade; carciofi a tre o quattro per pianta; c'erano indivie, piselli, fagioli, scarole, e, insomma, tutte le verdure di stagione. Qua e là, in terra, come abbandonate per chi volesse raccoglierle, vidi molte zucchine e molti cetrioli. Alberi da frutto, come sarebbero susini, peschi, meli, peri, anche c'erano: bassi e folti, pieni di frutti ancora acerbi, che si affacciavano tra le foglie, al chiaro di luna. Si sentiva che ognuna di quelle piante conosceva la mano dell'ortolano; e che non era soltanto l'interesse a guidare questa mano. Remigio, che non pensava che al tesoro, domandò impaziente: "Ma Marinese dov'è?" Risposi: "Laggiù," indicando la baracca in fondo all'orto. Ci andammo camminando per un sentieruolo, tra una fila di agli e una di sedani. Ma Remigio mise il piede su una lattuga e io gli dissi: "Bestia, guarda dove cammini." Mi chinai, raccolsi una foglia di quella lattuga e la portai alla bocca: era dolce, carnosa, fresca, come se fosse stata lavata nella rugiada. Così arrivammo alla baracca; e il cane di Marinese, che mi conosceva, invece di abbaiare mi venne incontro scodinzolando: un cane giallo, proprio da ortolano, ma intelligente. Bussai alla porta chiusa della baracca, prima piano, poi più forte e, infine, siccome non si vedeva nessuno, a pugni e a calci. La voce di lui ci fece saltare tutti e due, venendo non di dentro la baracca ma da un cespuglio lì vicino: "Che è? che volete?" Teneva una vanga in mano, si vede che anche di notte si occupava del suo orto. Venne avanti nel chiaro di luna, le braccia pendenti, la schiena curva, la faccia rossa con il barbozzo pieno di peli bianchi, un vero ortolano che dall'alba al tramonto si piega sulle sue insalate. Io gli dissi subito: "Amici" e lui rispose: "Non ho amici." Poi si accostò e soggiunse: "Ma 347 te ti conosco... non sei Alessandro?" Gli dissi che ero Alessandro, infatti; e, cavando di tasca la pistola, ma senza puntarla, ingiunsi: "Marinese... dicci dov'è il tesoro... facciamo un po' per uno... ma se non vuoi dircelo, ce lo prendiamo lo stesso." Alzavo intanto la pistola, ma lui ci mise sopra la grossa mano, come per dire che non era il caso, e, chinando la testa, domandò con aria riflessiva: "Ma che tesoro?" "L'argenteria, quella rubata dai Tedeschi." "Ma quali Tedeschi?" "I soldati, durante l'occupazione... la rubarono a quel principe." "Ma quale principe?" "Il principe... e tu hai detto che l'hanno sotterrata nell'orto..." "Ma quale orto?" "Marinese: il tuo... e non far lo scemo, tu sai dov'è e falla finita." Lui sempre tenendo la testa china, pronunziò allora lentamente: "Ah, tu vuoi dire il tesoro?" "Già il tesoro." "Allora vieni" disse premuroso; "lo scaviamo subito; ci hai la vanga? Prendi questa... Vieni che diamo una vanga anche a lui... vieni." Io rimasi un po' stupito perché non mi aspettavo che accettasse così presto; ma lo seguii. Andò dietro la baracca, sempre bofonchiando: "Il tesoro... ora vedrai che tesoro;" e ne tornò con una vanga che consegnò a Remigio. Poi si avviò ripetendo: "Venite... volete il tesoro... l'avrete." Dietro la baracca, il terreno non era coltivato ma pieno di residui e di mondezze. Più in là, c'era una fila d'alberi e, dietro i tronchi, un muro alto, simile a quello che limitava l'orto dalla parte dell'Aurelia. Lui prese per il sentiero, lungo gli alberi, e andò fino in fondo all'orto, là dove il muro faceva un angolo. Qui si voltò improvvisamente e battendo il piede in terra disse: "Scavate qui... il tesoro è qui." Io presi la vanga e cominciai subito a scavare. Remigio, la vanga in mano, mi guardava. Marinese gli disse: "Scava anche tu... non lo vuoi il tesoro?" Remigio allora si buttò a scavare con tanta furia che Marinese soggiunse: "Vacci piano... hai tempo." A queste parole Remigio rallentò e si diede la vanga sul piede. Lui gli prese la vanga e gliela girò nelle mani dicendo: "La devi tenere così... e ogni volta che entra in terra, devi spingere sopra col piede... altrimenti non scavi." Poi soggiunse: "Voi scavate in lungo quanto in largo... un paio di metri... non di più... il tesoro sta sotto... io intanto faccio un giro." Ma io gli dissi: "Tu resta qui." Lui rispose: "Di che hai paura?... te l'ho detto che il tesoro è tuo." Dunque, scavammo prima alla meglio, in superficie, poi 348 sempre più profondo secondo un rettangolo che io avevo tracciato con la punta della vanga. La terra era dura, secca, piena di sassi e di radici; io buttavo la terra da una parte, su un mucchio, e Marinese, che non faceva nulla, scostava i sassi con il piede oppure dava consigli: "Più piano... strappa quella radice... togli quel sasso." Venne fuori un osso, lungo e nero, e lui lo prese e disse: "È un osso di vaccina... vedi che cominci a trovare qualche cosa." Non capivo se parlava sul serio o per scherzo; nonostante il fresco della notte ero fradicio di sudore; ogni tanto guardavo Remigio e mi faceva rabbia di vederlo anche lui così trafelato e zelante. Scavammo un bel po', e non si vedeva sempre nulla: adesso avevamo fatto una buca rettangolare, profonda quasi un metro, e la terra, in fondo, era umida, farinosa, bruna ma senza traccia di cassetta o di sacco o di altro recipiente. Ingiunsi ad un tratto a Remigio: "Fermati;" e poi uscii dalla buca e dissi a Marinese: "Di un po', ma il tesoro dov'è? Niente niente, non ci avrai presi in giro?" Lui rispose subito, levandosi di bocca la pipa: "Tu vuoi il tesoro? ora te lo faccio vedere, il tesoro." Questa volta non lo trattenni perché ero stremato e, in fondo, quasi quasi, non ci tenevo più al tesoro. Lo vidi che si allontanava dirigendosi verso un'altra baracchetta che prima non avevo notato, addossata dietro gli alberi contro il muro di cinta. Remigio disse: "Scappa." Io risposi asciugandomi il sudore, appoggiato alla vanga: "Non scappa, no." E infatti, di lì a un momento, Marinese uscì dalla baracca portando una carriola piena colma, come mi parve, di strame. Andò alla buca vi rovesciò lo strame e poi, mettendo un piede dentro, cominciò a pareggiarlo con le mani. Domandai, incerto: "Ma il tesoro?" E lui: "Eccolo il tesoro... guarda quanto è bello;" e, intanto, con le mani, prendeva una manciata di strame e me lo sbriciolava sotto il naso, acquoso e puzzolente. "Guarda se non pare oro... l'ha fatta la vacca... vedi che tesoro... un tesoro come questo dove lo trovi?... eccolo il tesoro." Parlava per conto suo, indifferente alla nostra presenza, quindi, sempre parlando, uscì dalla buca, riprese la carriola, tornò a caricarla nella baracca, la riportò alla buca e vi rovesciò di nuovo lo strame. Anche questa volta pareggiò con le mani, ripetendo: "Lo vedi il tesoro... eccolo il tesoro." Io guardai Remigio e Remigio guardò me, e poi mi feci coraggio e tirai fuori di nuovo la pistola. Ma lui, subito, scostandola come se fosse stato un fuscello: "Leva la mano, 349 leva... se vuoi l'argenteria, sai dove la trovi?" "Dove?" domandai ingenuamente. "Al negozio... se gli dai i bigliettoni da mille, ne hai quanta ne vuoi." Insomma, ci prendeva in giro. "E questa buca che ci hai fatto scavare?" domandò Remigio con un fil di voce. Lui rispose: "È la concimaia... ne avevo proprio bisogno... mi avete risparmiato la fatica." Io mi ero completamente smontato. Pensavo che avrei dovuto minacciarlo, magari sparargli, ma dopo tutto quel vangare e quella delusione, proprio non me la sentivo. Dissi allora: "Ma dunque il tesoro non c'è;" quasi sperando che Marinese mi confermasse che non c'era. Ma lui, da vecchiaccio maligno, rispose: "C'è e non c'è." "Come sarebbe a dire?" "Sarebbe a dire che se tu fossi venuto con le buone, di giorno, forse c'era... ma così non c'è." Intanto senza curarsi di noi, si avviava verso la baracca. Gli corsi dietro, tutto affannato e lo presi per una manica dicendo: "Marinese, per l'amor di Dio." Lui si voltò a metà e domandò: "Perché non spari? non ci hai forse la pistola?" Io dissi: "Non voglio sparare... facciamo a metà." E lui: "Di' la verità: non hai il coraggio di sparare... lo vedi che non sei buono a nulla... un altro sparerebbe... i Tedeschi sparavano." "Ma io non sono Tedesco." "E allora, se non sei Tedesco, buona notte." Così dicendo, entrò nella baracca e ci sbatté la porta in faccia. Così finì la storia del tesoro. II giorno dopo, alla solita ora, Marinese entrò nell'osteria, e, come gli portavo il litro, gridò: "Ah, sei tu quello del tesoro... e la pistola dove l'hai messa?" Per fortuna nessuno ci fece caso, perché, come ho già detto, chiacchierava molto e per lo più diceva cose senza senso. Ma egualmente non mi sentivo sicuro; e poi non mi piaceva di essere preso in giro davanti a Remigio che sapeva e se la rideva, come se anche lui non ci avesse creduto al tesoro. Così approfittai di un'offerta e andai a lavorare in una trattoria in Trastevere, a piazza San Cosimato. Remigio invece rimase a San Pancrazio.