Boneschi, M. Poveri ma belli. L'arte di produrre, pp. 124-149 1. Imparare parole nuove (allegato) 2. Individuare le forme del participio presente e spiegarne l’uso 3. Individuare le forme e spiegare l’uso del participio passato controllando l’accordo tra esso e il soggetto 4. Esaminare i processi derivativi con gli aggettivi uscenti in –ale, –bile, 5. Esaminare la formazione dei nomi femminili Negli Stati Uniti d’America, che non per niente hanno vinto la guerra, la moglie di un operaio dispone di un frigorifero e di una lucidatrice. E a sedici anni, sempre laggiù in America, i ragazzi guidano l’automobile e ogni padre, che lavora cinque giorni su sette, il sabato cura il giardino e la domenica va a pesca. A parte i miliardari, neppure le famiglie più abbienti hanno la servitù fissa, al massimo una collaboratrice che viene e va con l’autobus. Se gli americani ci hanno prima liberato e ora ci danno i dollari, è perché hanno qualcosa da insegnarci: tutti possono vivere prosperamente. Comincia così il miracolo industriale, grazie a un impulso profondo, a un desiderio invincibile di farla finita con la povertà, al coraggio senza limiti di lavorare fino all’esaurimento delle forze, alla convinzione che una vita migliore è realmente possibile. In fondo al tunnel della fatica si intravede l’occasione di uscire da una condizione a volte disperata, sempre umiliante; si può toccare il traguardo del benessere. E, pur muovendo dal bisogno individuale di chiudere il capitolo della miseria, il miracolo diventa presto l’epopea collettiva di un popolo che modernizza il suo paese e lo mette al passo del ventesimo secolo. Non tutti ci credono, però, a questo traguardo. I comunisti, per esempio, sono convinti che il sistema capitalista sia ben più fragile di quanto non riveli la propaganda americana, mentre gli industriali più gretti, alleati con politici del loro stesso stampo, 125 scuotono la testa fin dal '46, e predicano e ripetono antichi pregiudizi: siamo un paese povero di materie prime e ricco solo di braccia, che cosa volete mai, accontentiamoci di non morire di fame, l’industria è troppo razionale e troppo scientifica per darla in mano a questi poveracci ignoranti. La ferma volontà di voltare pagina, costi quel che costi, è il fattore umano, centrale, del nostro miracolo. A cui si aggiunge un fattore tecnico: il disastro della guerra si rivela, a suo modo, un beneficio. Si devono ricostruire strade, ponti, ferrovie, edifici pubblici, ma soprattutto sono state distrutte molte fabbriche e quelle sopravvissute devono riconvertire la propria produzione, perché ora non ci sono più né impero né colonie né imponenti forze armate. Con i capitali americani, poi, l’industria nazionale può investire in macchinari e impianti nuovi. Il «vantaggio dell’ultimo arrivato» gioca a nostro favore. Il denaro non manca per chi non perde tempo a piangere: oltre ai capitali d’oltreoceano, c’è il denaro pubblico che in varie forme affluisce anche all’industria. E, infine, il piccolo risparmio viene spesso investito nella fucina dell’azienda di famiglia, dapprima per costituirla, poi per ingrandirla (magari succhiando al massimo dalle paghe operaie, oppure evadendo i contributi previdenziali e fiscali). Protagonista del miracolo è tanta gente comune che si rimbocca le maniche e tenta la fortuna, con ostinazione più che con i capitali, con fiuto del mercato più che con la laurea. Accanto ai rampolli delle vecchie dinastie industriali, si fa avanti un nutrito gruppo di «capitani d’industria», spesso diversi tra loro ma accomunati nell’obiettivo. Sono ingegneri ed ex operai, tecnici o, come nel caso del professor Vittorio Valletta, dirigenti per conto della famiglia proprietaria. 126 Il meglio e il peggio del boom Nel miracolo industriale non tutto è oro e non tutto luccica. Infortuni e salari da fame, avidità e grettezza si mescolano a un’incredibile lungimiranza. La modernità ha un prezzo: nell’industrializzazione questo prezzo è alto, soprattutto per l’eccezionale rapidità del processo, che si svolge in un arco di tempo molto brève, meno di un decennio. A questo si aggiunge il fatto che i paradossi in Italia non finiscono mai e, mentre le banche pubbliche erogano credito ai «protetti» della politica, ci sono imprenditori che sudano a fianco degli operai e ne condividono la parsimonia: il profitto finisce reinvestito fino all’ultima lira. C’è chi preferisce non discostarsi dalla tradizione e chi invece guarda ai sistemi americani. Il miracolo ha una faccia feroce e una sorridente. L’intreccio tra politica e industria, il sovraffollamento di leggi antiquate, la presenza di grandi gruppi monopolistici, la grettezza padronale nei confronti degli operai e l’avversione di parte del sindacato per il sistema capitalistico costituiscono il lato oscuro e retrivo del miracolo. Ma c’è anche un altro lato, che mira a un progresso equilibrato. È ciò che vuole Adriano Olivetti quando costruisce a Pozzuoli una nuova fabbrica, la prima al Sud di un’industria privata del Nord, con vista sul verde per la serenità di chi ci lavora. O quando fonda la rivista «Comunità», con cui intende affiancare allo sviluppo industriale le conquiste civili, sociali e culturali. O quando nel '50 ristruttura gli stabilimenti di Ivrea e fonda una colonia estiva a Marina di Massa, e nel '57 costruisce la mensa dei lavoratori, progettata da Ignazio Gardella. Fa parte del lato sorridente del miracolo la felicità del capofamiglia che, soldo su soldo, costruisce da sé la sua casa. Dice l’operaio Armando: «Alla casa io ci tengo, non come certa gente che fa i debiti per divertirsi. Io non vado mai nemmeno all’osteria, niente fumo, mai fuori di casa 127 per non spendere niente di extra. Mangio minestra due volte al giorno e non più di un piatto». Ma la vita operaia è durissima. In quasi tutte le acciaierie, almeno all’inizio, non sono previsti turni di riposo. «La direzione ha distribuito un casco di fibra» racconta l’operaio Gaspare «che è leggero e solido nello stesso tempo e risparmierebbe molli infortuni dovuti alla caduta di materiale, ma solo un operaio su cinque lo porta.» Nel laminatoio dove lavora Biagio muoiono tre operai in un anno e lui lamenta che il padrone italiano non somiglia a quello americano: «Ha una mentalità arretrata, non è capace di vedere più lontano del suo lucro immediato; io vedo, per esempio, che qui ci sono dei piccoli industriali che sprecano milioni in automobili o altre cose inutili, e poi stanno a lesinare sulle dieci lire da dare all’operaio che lavora a domicilio». A Riva del Garda la Cantieri Zontini, un mobilificio in crisi, sopravvive nel '50 con il denaro pubblico grazie ai benefici di un decreto dell’ormai lontano '44, il quale stabilisce le «provvidenze per agevolare il riassetto della vita civile e la ripresa economica della nazione». Nell’azienda, che ha già perso un miliardo, la Banca nazionale del lavoro pompa 200 milioni e altri 150 piovono dalla Confederazione nazionale dell’artigianato, anche se la Zontini è una fabbrica e non un laboratorio artigianale. C’è chi investe denaro e chi lo succhia, c’è chi crede nell’innovazione e chi invece preferisce restare ancorato alla tradizione. Nel '53 a Enrico Falck chiedono un parère sull’ipotesi di una scuola per dirigenti d’azienda, ora che anche l’Italia si avvia a diventare un po’ «americana»: a che cosa serve, se ci siamo qui noi, i padroni, che provvediamo a tutto, risponde stupito l’industriale siderurgico. Ma contemporaneamente, nella Milano dove la famiglia Falck vive e lavora, un giovane editore di fede comunista, Franco Angeli, comincia a far fortuna stampando proprio libri di organizzazione aziendale, la scienza della quale il «capitalista» Falck ritiene che non ci sia affatto bisogno. 128 Nell’intenso divenire del miracolo c’è un posto per ogni tipo di contraddizione. Perfino quella inventata dal pluriministro democristiano Giuseppe Togni, che nel '50 vara un progetto di legge «per la tutela del consumatore». Chi ha la pazienza di leggerlo s’accorge che dietro at titolo si nasconde una severa regolamentazione del commercio al dettaglio, una strenua difesa della bottega. Togni è maestro nell’uso strumentale del lessico e quando nel '51 propone di « liberalizzare» le ricerche petrolifere, intende in realtà tutelare gli interessi della Edison contro l’agip. Per anni, infatti, la prima ha detenuto un’esclusiva per la ricerca di idrocarburi, ma se n’è servita solo per bloccare la concorrenza. Ora che le ricerche dell’agip hanno avuto successo, la Edison ci ripensa e il ministro democristiano Togni è pronto a offrire i suoi servizi. Incredibile, sembra un miracolo Il primo a definirlo «miracolo» è l’economista ed ex ministro liberale Epicarmo Corbino, il quale avverte nel '52 che la ricostruzione è finita e la ripresa avviata, e che quindi si può guardare al futuro dell’economia con fiducia: la popolazione ha lavorato sodo negli anni del dopoguerra, «assicurando una ripresa economica che ha veramente del miracolo». Intanto a Torino la fiat si appresta a varare un programma di investimento per 300 miliardi: è il progetto della Seicento che sarà pronta nel '55. È comunemente riconosciuto che il boom va dal '58 al '63, tuttavia lo slancio che porta a questa sorprendente esplosione è una sorta di spontaneo proseguimento della ricostruzione e per tutti gli anni Cinquanta è un susseguirsi di conquiste. Nel '50 il livello della produzione in-dustriale supera quello del '38. L’anno dopo, però, il censimento rivela che gli occupati in agricoltura sono ancora 42 su 100 (e salgono a 57 al Sud). Nel '56 la produzione industriale è raddoppiata rispetto all’anteguerra e, oltre al settore energia (il metano segna un crescita del 250% rispetto 129 al '38), vanno forte la chimica, la meccanica, la metallurgia. D’altro canto si constata che negli ultimi otto anni i salari reali sono cresciuti solo del 6%. Nel '58 il bilancio dell’attività industriale comincia a essere da capogiro: la produzione italiana di frigoriferi passa dai 18.500 pezzi del '51 ai 370 mila del '57, collocando l’Italia al terzo posto mondiale dopo gli Stati Uniti e il Giappone, e quella di macchine da scrivere sale da 151 mila del '57 a 652 mila del '61. Ma è la produzione di automobili che fa il balzo più grosso: nel '59 sono 470 mila, il doppio rispetto al '55, e il merito è indubbiamente delle due utilitarie fiat. Cinquecento e Seicento. Nel '58 circolano 1,4 milioni di auto, dieci volte quelle del '46. Nel decennio la produzione industriale cresce in media dell’8% l’anno, mentre i disoccupati scendono dal 10% a quasi zero; i lavoratori dell’agricoltura sono poco più di 6 milioni, ormai superati dai 6,7 milioni dell’industria, che contribuisce alla formazione del Prodotto interno lordo per il 40%, contro il 20% dell’agricoltura. Sono eventi tanto più prodigiosi in quanto largamente imprevisti. A questi risultati e al destino dell’Italia come potenza industriale ci credono in pochi. Gli scettici popolano il mondo politico, quello imprenditoriale e quello sindacale. Lo stesso Corbino all’inizio del decennio consiglia l’emigrazione in Francia, paese bisognoso di manodopera, come valvola di sfogo per i due milioni di disoccupati ufficiali che risiedono soprattutto al Nord e per i contadini sottoccupati che abitano nelle campagne meridionali. La rassegnazione alla povertà, la passività, la convinzione che gli italiani non ci sanno fare è tale che alla Costituente nel '46 un gruppo di deputati comunisti pretende di sancire nella Carta il dovere dello Stato a un intervento propulsivo sull’economia. Quando interviene per opporsi allo Stato propulsore, Ferruccio Parri osserva che se esiste un deterrente allo sviluppo economico, questo è proprio l’imposizione per legge. Presso il popolo italiano «la diffidenza antistatalista è forte» sostiene Parri «e giustificata 130 in uno Stato che ha forti tradizioni solo in senso burocratico, in cui i partiti si presentano ancora come provvisori, le classi politiche sono quasi ancora improvvisate e mancano il freno e il contrappeso fondamentale all’oppressione statalista, cioè tradizione, esperienza, capacità di autogoverno». Nonostante lo scetticismo dei più e nonostante una bardatura di leggi antiindustriali e avverse alla concorrenza ereditate dal fascismo - come quella del '33 che subordina la costruzione di impianti industriali a un’autorizzazione governativa e quella del '32 che agevola la costituzione di consorzi tra produttori -, il miracolo avviene: sboccia un’Italia più moderna anche se non automaticamente più giusta. Una diga di dollari americani Il primo passo verso la ripresa si compie grazie al fatto che dal '45 al giugno '52 si riversano sull’Italia 2800 milioni di dollari. Corbino è dell’avviso che l’aiuto concreto degli americani sia stato «un poderoso argine alla diffusione del comunismo in Occidente». Questi soldi servono anche a ricostruire e modernizzare gli impianti industriali. Il secondo passo è rappresentato dai nuovi investimenti, che determinano una rivoluzione tecnologica: la meccanizzazione della fabbrica. L’ondata di repressione che colpisce gli operai comunisti e socialisti nei primi anni Cinquanta - e che ha come momento culminante la sconfitta della fiom[1] cgil alla fiat nell'aprile '55 - serve agli industriali a perseguire un secondo scopo: liberarsi di manodopera vecchia ed esperta - «gli operai che fanno i piedini alle mosche» - e assumere gente giovane, più docile e più duttile all’impiego delle nuove macchine. Tra il '50 e il '56 la Borletti di Milano rinnova il 70% dei macchinari, grazie ai dollari dell’ERP (European Recovery Program) passando alla pacifica produzione di tachimetri 131 (da poco obbligatori anche sulle moto e sugli scooter) e di macchine da cucire. Su 773 nuovi assunti, tra il '51 e il '56, 500 sono al primo impiego e si tratta in maggioranza di operaie dai 14 ai 18 anni. Il terzo passo è l’apertura dei mercati, dopo che quello interno, una volta che le famiglie si sono riprese dai danni bellici, è diventato più ricco di prima della guerra, e chiede beni di consumo e beni durevoli, energia e servizi. I mercati esteri sono ben contenti di rifornirsi in Italia di prodotti di indiscutibile qualità a basso costo e basso prezzo. Dopo la pace ricominciano a circolare prodotti, servizi, idee ed esperienze. La crescita delle importazioni nel decennio è straordinaria, 220%, ma ancor di più lo è quella delle esportazioni che aumentano del 245%. Gli italiani, dunque, non hanno soltanto imparato a produrre per se stessi, ma per il mondo intero e nel ‘59, quando entrano in vigore le disposizioni dei Trattati di Roma del '57, il Mercato comune europeo costringe l’industria italiana a una nuova disciplina, a una maggiore concorrenzialità e a un’ulteriore fase di crescita. Sull’impiego dei finanziamenti in dollari c’è un po’ di attrito con gli americani intorno al '50. La politica deflazionistica del governo è strenuamente difesa in Italia, ma incompresa al di là dell’Atlantico, dove economisti e politici sono dell’idea che un po’ di coraggio e una politica espansiva non possano che giovare alla ripresa economica. Il capo della missione per l’applicazione del Piano Marshall in Italia, Dayton, compila un rapporto assai critico verso il governo italiano, che non fa fruttare gli aiuti e ritarda la ripresa. Gli americani, piuttosto irritati, stentano a farsi capire, un po’ perché i sottosegretari Silvio Gava e Piero Malvestiti, incaricati di trattare, non parlano e non comprendono una parola d’inglese, un po’ anche perché i politici italiani non paiono afferrare il concetto: se investiti, i dollari fruttano produzione, profitti e benessere; se custoditi nelle riserve, no. Abbiamo paura dell’inflazione, ripetono gli italiani. Noi siamo terrorizzati dal comunismo, 132 replicano gli americani, sbalorditi che gli ultimi a temere l’avvento di Stalin siano proprio gli italiani. Sono soprattutto gli economisti della Banca d’Italia che si preoccupano di tenere i rapporti e, tra loro, l’ancor giovane Paolo Baffi che ne ha lasciato una testimonianza commovente. La tensione, comunque, si risolve e l’Italia schizza via per un'avventura inedita nella sua storia. A tranquillizzare i benefattori d’oltreoceano, qualche anno dopo, contribuisce un economista americano, Vincent Barnett, che scrive per il Massachusetts Institute of Technology un’opera mai pubblicata, The Italian Political Situation. Lo studioso esprime fiducia verso gli italiani e verso la volontà di riscatto che percorre il paese. «Un fatto di grande rilievo nel dopoguerra» racconta Barnett «è sicuramente la grande vitalità ed energia del popolo italiano nello sforzo di ricostruzione. I viaggiatori attenti dell’Italia postbellica hanno percepito lo spirito di una società giovane, creativa ed esuberante, che emergeva tra i resti di vestigia e istituzioni delle civiltà antiche e feudali.» Alla fine del '55, anche i commentatori più conformisti smettono di piangere. «Stiamo arricchendo e non tutti lo sanno» avverte l’economista Ferdinando Di Fenizio, il quale ammonisce che una crescita tumultuosa dovrebbe richiamare gli uomini di Stato a un più attento rigore nella contabilità pubblica. Ma non è questo il genere di segnale che i politici sono inclini ad ascoltare. Eppure, se siamo arrivati ad arricchire cosi presto, continua Di Fenizio, è stato grazie a un’ammirevole concordia delle truppe in campo e questa sintonia va mantenuta. Abbiamo avuto un governo che ha tenuto d’occhio le entrate e le spese, una banca centrale che ha controllato l’inflazione, un sindacato ragionevole e soprattutto industriali che hanno prodotto e venduto con particolare attenzione ai mercati esteri. Banale, ma vero. Ognuno fa il suo dovere, nessuno sciala e il risultato è buono per tutti. 133 Macchine per produrre, scrivere, cucire e copiare Nell’identificare oggetto per oggetto, persona per persona, tutto quel che si muove sulla scena del miracolo italiano, Barnett si rivela capace di trasformare un crudo elenco in una piccola epopea: «Nell’arco di pochi anni gli artisti, stilisti e imprenditori italiani di spicco si sono creati una reputazione a livello mondiale per la freschezza delle idee, la forza innovativa, la volontà di aprire vie nuove. Nell’edilizia residenziale, nei modelli di automo-bili, nella produzione e nel commercio di macchine da cucire, di motorette, di macchine da scrivere e di attrezzature per uffici, nella moda femminile, nella produzione di film impegnati, in questi e in molti altri campi la nuova Italia appare come una nazione con una forte impronta giovanile e un crescente entusiasmo per la vita». Uno dopo l’altro i prodotti dell’industria rendono piacevole la vita e lasciano sbalorditi per le loro virtù. Gli italiani non si lasciano intimidire dalle innovazioni tecnologiche, e le assorbono con la stessa facilità con cui i bambini imparano le regole di un gioco sconosciuto. Le novità più significative del '50 sono due: la macchina da scrivere Lettera 22 dell’Olivetti e una fibra, l’Orlon, che sostituisce la lana. La Lettera 22, disegnata da Marcello Nizzoli e colorata in tinte pastello, avrà una vita lunghissima; quanto all’Orlon, è il primogenito di una ricca prole[2] di fibre sintetiche e artificiali che le aziende chimiche continueranno a produrre, a prezzi sempre più conveniente. Nel '54, poi, Giulio Natta, ingegnere della Montecatini, mette a punto il Moplen, un materiále duro, resistente e leggero, dal larghissimo impiego, che frutterà all’inventore il premio Nobel per la chimica e alla sua società una pioggia di denaro. Fin dal '50 le nuove tecnologie produttive sono entrate nelle fabbriche Olivetti, dove tra l’altro le macchine da scrivere e da calcolo vengono montate su nastri trasportatori continui. La ditta d’Ivrea vince anche la sfida delle calcolatrici meccaniche, finora vanto dell’industria americana, 134 con la Elettrosumma, cui seguono la Multisumma e la Divisumma, tutte destinate agli uffici. Nel '56, l’Olivetti è ormai un grande gruppo che dà lavoro a 14 mila persone. Nel '59 riesce a produrre il primo calcolatore elettronico italiano, Elea 9003, che regala al ministero del Tesoro; il secondo esemplare lo compera invece la Marzotto. Le macchine invadono beneficamente la vita: santa protettrice delle donne, l’industria le solleva dalle fatiche quotidiane; mentre al lavoro d’ufficio provvedono, oltre alle macchine da scrivere e da calcolo, il «dittafono», che uccide lentamente la stenografia. Nel '55 è la volta di Mirella, la macchina da cucire automatica della Necchi, anche lei disegnata da Nizzoli: è un’altra prova che non solo gli americani ci sanno fare. A metà del decennio la Necchi produce oltre il 50% delle macchine da cucire italiane e la Pirelli il 65% degli articoli di gomma, dalle borse per l’acqua calda ai pneumatici. Gli anni Cinquanta segnano poi il trionfo della gommapiuma, dai molteplici usi: dormire su un materasso morbido, viaggiare comodamente in auto, ascoltare musica alla Scala, riposare su poltrone come la rivolu-zionaria Lady, disegnata nel '50 da Marco Zanuso. Il gioioso fiorire di idee e attività descritto da Barnett è accompagnato da gare e concorsi per produttori e consumatori, ispirati alla fantasia creativa e non alla passiva fedeltà. Nel 55 la Rinascente distribuisce agli azionisti pingui dividendi del 10% e decide di spendere un po’ di quella pioggia di profitti per premiare il disegno industriale. E questa un’arte messa a punto dagli italiani, che a partire dagli anni Cinquanta ne detengono il primato mondiale: si tratta di dare una bella forma a oggetti che non sono stati concepiti per essere belli, ma utili. La Rinascente bandisce così il premio del Compasso d’Oro, vinto nel '55 dall’Olivetti, nel '56 dalla Lagostina per la sua pentola d’acciaio e così via per tanti anni. Dagli americani impariamo altre arti e tecniche, per esempio, i cibi in scatola. L’Althea che confeziona a Parma il Sugoro è, a detta di Piovene, «tra le nostre belle industrie, 135 organizzata non diversamente da quelle che ho veduto in America, con lo stesso scrupolo igienico, lo stesso studio sulla scelta degli ingredienti, lo stesso aspetto lucido di laboratorio». A inventare macchine per risparmiare sul lavoro umano, gli americani sono maestri e insegnano all’Europa come vendere senza commesse. Il primo supermercato apre a Roma nella primavera 1957 e nell’autunno s’inaugura quello milanese di viale Regina Giovanna. «Il Giorno», che sventola la bandiera di un futuro razionale ed efficiente secondo il gusto più progredito dei lombardi, lo descrive come una «scintillante drogheria», dove il cliente pu6 scegliere tra 1600 prodotti durante una passeggiata con il carrello, al termine della quale approda alla cassa e paga. Come il western e la Coca-Cola, anche il supermercato fa da baluardo all’avanzata comunista; i democristiani, però, per ragioni puramente elettorali, conti-nuano a proteggere l’arcaica bottega. A metà del decennio i giochi sono fatti e l’industria italiana è nelle condizioni di sbocciare: fallita la Caproni, chiusa l’Isotta Fraschini, ingrandita la Rinascente, riconvertita la Piaggio, ingranano l’ilva e l’acip, con la loro produzione di acciaio e di metano, e ripartono i grandi monopoli chimico ed elettrico, mentre la fiat è pronta a procedere con le sue utilitarie. L’industria allarga i suoi insediamenti a corona intorno a Milano, ma sorge un po’ ovunque nel Nord, spezzando l’esclusiva del vecchio «triangolo» Genova-Torino-Milano. Nascono, così, distretti industriali come quello di Lumezzane, nel bresciano, specializzato in posate e maniglie. E, al tempo stesso, si diffonde la grande illusione che gli insediamenti nel Sud mettano fine all’isolamento e alla povertà, riallacciando i fili con l’antica tradizione manifatruriera del napoletano. Nel '55 l’Olivetti è la prima grande industria privata settentrionale a mettere piede in quella terra d’infedeli che un antico pregiudizio vuole del tutto refrattaria all’industria: si inaugura così lo stabilimento di Pozzuoli per telescriventi, che dà un salario a cinquecento lavora- 136 tori. L’avventura degli arruolamenti operai è raccontata da Ottiero Ottieri in Donnarumma all’assaito. Nello stesso anno l’Olivetti acquista l’ex cotonificio De Angeli Frua ad Agliè Canavese e vi ricostruisce sopra uno stabilimento, dove per la prima volta sperimenta l’orario di 45 ore settimanali. Nulla resta intentato, in quegli anni di volontà e ottimismo. Enrico Mattei all’arrembaggio «Anche l’Italia ha finalmente il suo carbone» recita la pubblicità. Non si tratta per la verità di carbone, ma di metano della pianura Padana che, a suo modo, è protagonista del riscatto nazionale dalla miseria. Ogni giorno, spiega l’agip, si estrae dal sottosuolo patrio l’equivalente di una nave da seimila tonnellate di carbone. Solo che è roba nostra e non pesa sulla bilancia dei pagamenti con l’estero. Non l’avremmo conosciuto, il nostro metano, se non fosse stato per l’ostinazione prepotente di Enrico Mattei, che per l’agip ha ottenuto dal governo l’esclusiva dello sfruttamento dei giacimenti. Tra gli imprenditori dell’Italia nuova, Mattei è uno dei più paradossali. Ha il coraggio di un pioniere, ma rischia capitali dello Stato. Maestro del «fai da te», è però un democristiano di sinistra, con le spalle ben coperte a Roma. È un concorrente tenace dei gruppi privati, ma è pronto a corrompere per vincere. Proiettato nel futuro, dà grande impulso all’organizzazione aziendale e alla cultura tecnica dell’eni[3]; ma intanto, per continuare a navigare indisturbato, paga i partiti politici. Come sostiene Giorgio Bocca, è un uomo «democratico nelle opere, autoritario nella gestione». Imprenditore per conto dello Stato, Mattei piega ai suoi obiettivi una legge e una giustizia che sa essere fragili. È lui a raccontare come è riuscito a costruire i metanodotti, superando l’ostilità dei proprietari dei terreni: in caso di resistenza all’esproprio, la squadra per la posa dei tubi irrompe di notte; la mattina dopo il danneggiato cita l’eni in 137 giudizio per violazione di proprietà, ma i benefici del metano arriveranno ben prima di qualsiasi sentenza. Lo sviluppo dell’agip e in seguito del gruppo eni dura in modo costante per l’intero decennio, ramificandosi nel petrolio e poi nella chimica, nella plastica e nei fertilizzanti. Nei fertilizzanti, Mattei distrugge il monopolio della Montecatini, grazie alla protezione della dc: nel '58 eni e Federconsorzi stipulano infatti un accordo in base al quale l’eni venderà ai coltivatori solfato e nitrato di ammonio a prezzi inferiori dei 15% rispetto a quelli dei mercato. La Montecatini, che controllava circa i tre quarti della produzione nazionale e fissava i prezzi, è messa fuori gioco. Il colpo di Stato iraniano di Mossadeq dà la spinta alla ricerca del petrolio italiano, che comincia in Sicilia. Nel '55 dai giacimenti di Comiso vengono estratte enormi quantità di greggio, e si calcola che negli ultimi cinque anni si sia risparmiato l’equivalente di un migliaio di navi di carbone. Forse l’isola ha trovato una vocazione industriale, a sperarlo sono in molti. Quell’anno l'agip trova il petrolio nell’Adriatico, al largo di Pescara. Gli americani delle Sette Sorelle, adesso, hanno davvero paura di Mattei, che nel '57 firma un accordo tra l’eni e il governo di Téhéran per lo sfruttamento diretto di una concessione petrolifera in Iran. Mattei ha cinquantun anni quando firma al cospetto dello scià e del presidente della Repubblica Gronchi. «Pochi uomini hanno ormai l’aspetto tradizionale del magnate del petrolio che va all’arrembaggio» si legge su «The Economist» in quei giorni «Enrico Mattei non ce l’ha, e pochi sono malvisti come lui dai settori più seri dell’industria petrolifera internazionale.» Mattei ha idee brillanti e fantasiose: la più nota è la fondazione del «Giorno», il quotidiano che dichiara guerra al «Corriere della Sera», alla Montecatini, alla Edison, all’Assolombarda, alla destra democristiana e al pli[4] di Giovanni Malagodi. Il giornale creato da Gaetano Baldacci e successivamente diretto da Italo Pietra è moderno, leggibile, democratico e divertente. A suo modo, Mattei ha una visione 138 da rivoluzionario. Lo dimostra nel '59, quando l’eni produce il film L’Italie n'est pas un pays pauvre, che propone al grande regista Joris Ivens e che è destinato a mostrare l’immagine dell’Italia nuova, nonché i meriti dell’eni, al mondo intero. Ivens, uomo di sinistra, accetta con gioia: «Perché no? Il capitalismo di Stato, dopotutto, va contro il monopolio americano», e si reca fino in Lucania a esplorare quel che cambia dopo l’arrivo dell'eni, ma anche in Sicilia, a Venezia e Ravenna. Il commento al film è di Alberto Moravia e Corrado Sofia. Il capitalismo di Stato, almeno negli anni Cinquanta, si batte per la modernità e sa di poter vincere la guerra alla miseria. I proto manager: Sinigaglia e Valletta Nel maggio '52 alle porte di Genova entra in funzione un colosso industriale, lo stabilimento siderurgico a ciclo integrale di Cornigliano. Come per l’energia, anche per l’acciaio l’Italia soddisfa ora da sé un terzo del suo fabbisogno. E, ancora una volta, si tratta di un caso di ostinazione e tenacia, quella di Oscar Sinigaglia. Quando inaugura Cornigliano, l’ingegnere romano ha già settantacinque anni e da almeno trenta persegue un obiettivo: introdurre in Italia la lavorazione a ciclo integrale. Fin dal '37 aveva scongiurato Mussolini di accettare l’idea, ma nel '39 è messo fuori gioco: ebreo, dopo le leggi razziali non può più lavorare. è nel '46 che si ricomincia, grazie al denaro degli americani e a sessanta ingegneri che vanno a studiare all’estero tecniche e funzionamento delle macchine acquistate negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania. E, per la prima volta nella storia, l’Italia controlla una produzione strategica. Questo si che è un miracolo e perfino la cgil coopera: nei due anni che occorrono per costruire l’impianto di Cornigliano, non si registra un solo minuto di sciopero contro la nato o la guerra in Corea. A pronunciare la parola d’ordine è lo stesso segretario generale della cgil, Giuseppe Di Vittorio, che avverte: «Compagni, se 139 non abbiamo l’acciaio, mi spiegate come potranno lavorare le imprese metalmeccaniche che danno lavoro a 600 mila persone?». Un notevole sforzo, sebbene non paragonabile per innovazioni a quello sostenuto nel settore del metano e dell’acciaio, viene compiuto anche per la produzione di energia idroelettrica. Dighe e centrali sono in mano a società private ed è proprio negli anni Cinquanta che prende forma il progetto di nazionalizzare tutto. È, questo, un problema politico più che economico: a controllare l’energia è un pugno di società conservatrici e monopolistiche, e la sinistra vuole tagliarne il potere. Nel frattempo, però, nelle Alpi si continua a investire in opere destinate allo sfruttamento dell’energia idroelettrica, anche se talvolta, proprio in vista della probabile nazionalizzazione, si lavora con un piglio a dir poco disinvolto: la diga di Longarone crollerà nel '63 perché appoggiata su montagne franose. E poco importa se, come accade in Val Grisanche nel '54, per il formarsi di un lago artificiale scompare un intero paese: questa volta tocca a Fornet, ma il sacrificio vale 200 milioni di chilowattora l’anno per la produzione industriale e per la popolazione. Come Mattei e Sinigaglia, anche Vittorio Valletta ha tutte le caratteristiche dell’imprenditore, salvo una: la proprietà dell’impresa. È infatti per conto della famiglia Agnelli che il professore gestisce la fiat per un glorioso ventennio. Gianni Agnelli ha da poco sposato Marella Caracciolo - e le foto di quel novembre '53 ci restituiscono l’immagine di una coppia contrariata più che innamorata - quando il suo amministratore delegato affronta uno dei passi più delicati della propria camera. Anche in questo caso c’è di mezzo una donna. Si tratta di rispondere ai rimbrotti dell’ambasciatore Clare Boothe Luce che, tra il novembre '53 e il marzo '54, si lamenta con il professore che «a lato dei sacrifici fatti dagli Stati Uniti, oltre un miliardo di dollari, la situazione del comunismo in Italia, in luogo di retrocedere, parrebbe in continuo progresso». 140 Non si sogni la fiat, avverte la temibile Clare, di ottenere commesse americane finché non abbia dimostrato di saper tenere al loro posto i comunisti. Valletta si batte su tre fronti: oltre a quello produttivo - ha già avviato il progetto dell’utilitaria - c’è quello diplomatico e infine quello sindacale e politico. Prende dunque la penna e scrive ai deputati del Congresso di Washington, perorando la sua causa e assicurando che l’azienda ha provveduto a licenziare gli «elementi faziosi» e ad aprire una scuola in cui si entra solo con ottime referenze e si esce «operai Fiat», al ritmo di trecento l’anno. Fatto questo, non gli resta che aspettare: nell’aprile '55, alle elezioni per il rinnovo delle commissioni interne, il consenso agli «elementi faziosi» della fiom cgil precipita dal 60 al 38%. Intanto Valletta presenta al presidente della Repubblica Gronchi la nuovissima Seicento. Non è la prima né sarà l’ultima volta che il professore tira fuori d’impaccio la Fiat: nel '46 era riuscito a ottenere un grosso prestito dalla Bank of America grazie a un rapporto di fiducia personále con il suo presidente, l’italoamericano Amedeo Giannini; aveva già salvato gli stabilimenti al momento della Liberazione e ora, alla vigilia del successo, riesce a sfuggire alla tenaglia dei prestiti americani e degli operai «faziosi». Nel corso del decennio la Fiat licenzierà duemila persone per motivi politici. Delle due facce degli anni Cinquanta, belli ma poveri, Valletta è un perfetto rappresentante. Crede e contribuisce a realizzare un più largo benessere, con salari, auto e autostrade, ma lo fa con quel tetro piglio da maresciallo di caserma, che induce a temere una punizione incombente ogni volta che proclama (e accade spesso): «Siamo tutti una grande famiglia». Vecchia guardia e giovani pionieri Per quanto ingombranti, l’eni di Mattei, l’acciaio dell’iri e i monopoli privati non occupano l’intera scena del miracolo industriale, che ha tra le sue particolarità lo sbocciare 141 di un ceto imprenditoriale giorno dopo giorno, tra improvvisazioni, esperimenti, sconfitte e successi. I nuovi imprenditori danno fondo alle risorse disponibili: più del denaro, l’intelligenza e la volontà. Qualche volta l’imprenditore è tanto collettivo da non essere ricordato per nome, ma per campanile. A Carpi nel '55 si contano circa quattromila macchine per maglieria e «tutti sono ricchi», constata un cronista; eppure nell’immediato dopoguerra contava tanti disoccupati quanti erano gli abitanti. La cittadina era stata famosa in tutto il mondo per la fabbricazione dei cappelli, ricavati dal truciolo di pioppo; poi, negli anni Venti, la lira a «quota novanta» aveva precluso l’esportazione e rovinato questa fiorente industria. Passano gli anni e le sciagure, e nell’immediato dopoguerra alcuni carpigiani si accorgono che si può ricominciare a vendere all’estero partendo dai contatti commerciali di un tempo. Già, ma vendere che cosa? Di cappelli non è proprio il caso di parlare, ma la lana, invece, è disponibile a buon mercato. I carpigiani[5] si fanno magliai e ridiventano famosi nel mondo. Sembra, negli anni Cinquanta, che la libertà creativa di un imprenditore sia illimitata. Pietro Ceccato, che comincia come farmacista ma poi cede alla passione per i motori, è uno di quelli che non si fermano ai nuovi impianti, ai nuovi prodotti e ai nuovi mercati, ma si spinge a sperimentare tecniche di gestione pionieristiche. Nel '53 la sua fabbrica meccanica ad Alte Montecchio, alle porte di Vicenza, costruisce biciclette, moto, compressori attrezzature per distributori di benzina, bombole del gas. I circa seicento dipendenti riescono a guadagnare 14 milioni di ore di lavoro in un anno, a parità di produzione, grazie a trecento diversi modi di risparmiare tempo, denaro e fatica. Da quando l’azienda ha lanciato lo slogan «Chi pensa produce», tutti danno una mano, lo testimonia il capo-operaio Gentilin: «Nessuno mi aveva mai chiesto di dire che cosa pensavo del mio lavoro. Poi me l’hanno chiesto e ho suggerito un sistema nuovo di verniciare le moto». Anche migliorare la produttività richiede un’autorizza- 142 zione ministeriale. è il Comitato nazionale della produttività presso la presidenza del Consiglio a rilasciare i permessi, ma lo fa a tre condizioni: che sia garantito un premio ai lavoratori, che si svolgano consultazioni periodiche tra le parti e che, infine, non siano applicati aumenti di prezzo sui prodotti. Le prime esperienze, dicono nel '53, si rivelano molto positive perché l’aumento di produttività giova alla competitività, comporta nuove assunzioni e allenta la tensione tra datori di lavoro e dipendenti. Solo undici aziende, pero, ottengono le dovute autorizzazioni. Un programma di incremento della produttività, frutto di una mentalità aperta e collaborativa, non può funzionare su larga scala in Italia, dove troppi imprenditori assomi-gliano a quelli descritti dall’operaio Biagio che «sprecano milioni in automobili», e un grande numero di lavoratori aderisce alla cgil, che detesta ogni forma di collaborazione perché avversa il sistema capitalista. Il miglioramento della produttività, afferma il sindacato, è una trappola dei padroni, giova solo alle aziende e nessun dialogo è possibile, come dimostra il «botta e risposta» del '51 tra il presidente della Confindustria Angelo Costa e il segretario della cgil, Giuseppe Di Vittorio. Dice Costa: «L’industria italiana opera in regime di concorrenza. Se abbassa i prezzi dei prodotti può battere la concorrenza, forse, ma distrugge il suo capitale. Dunque, l’unica via d’uscita è far crescere la produttività». Ascolta, ma non capisce un’acca, Di Vittorio: «Nossignori, non ci stiamo. L’aumento di produttività si ottiene con nuovi impianti, non tagliando l’occupazione». Il conte Gerolamo Gaslini, industriale genovese dell’olio, già senatore del Regno, rievoca cosi la fatica di sfondare: «Adesso sono vecchio e ho smesso di lavorare... Prima la-voravo sempre e non dormivo mai. Qualche volta in treno. Ma, intendiamoci bene, in seconda classe, mai in letto. Sempre seduto, mai disteso. In prima classe solo dopo che mi hanno fatto senatore, perché allora si viaggia gratis. Se non viaggiavo, invece, dormivo a tavola tra un piatto e l’altro. Adesso, alle dieci di sera mi viene sonno e mi addor- 143 mento e allora qualcuno mi prende su e mi butta via. Però alle due mi sveglio e alle quattro ricomincio». Quello di Gaslini non è il caso estremo di un lavoratore d’altri tempi, ma il ritmo consueto di chi intende far fortuna con l’industria. La vecchia guardia e i giovani pionieri degli anni Cinquanta hanno qualcosa in comune. Gli italiani sono poveri, tuttavia imparano presto qualsiasi arte e tecnica; si nutrono di pane e minestra, ma hanno uno spiccato intuito commerciale. E un’intera generazione di imprenditori fa fortuna guardando al mercato e alle necessità dei consumatori. Luigi Lucchini è figlio del fabbro e della maestra di Casto, nel bresciano. Vede le rovine di guerra e sa che nella sua zona sono abilissimi a lavorare il ferro, perciò raccoglie rottame e ne fa tondo per cemento armato, che vende per la ricostruzione. I Bertazzoni di Guastalla trasformano una piccola fabbrica di cucine economiche e stufe in un’industria di elettrodomestici di nome Smeg; Lino Zanussi, con la sua azienda dall’ambizioso nome di Rex, si dedica al dilagante mercato dei frigoriferi; e a Fabriano Aristide Merloni e i suoi figli passano rapidamente dalla distribuzione di bombole per il gas alla fabbricazione industriale di elettrodomestici. In Emilia, dove la crisi delle Officine Reggiane ha lasciato dietro di sé un patrimonio di esperienza non trascurabile, parecchi ex operai divengono imprenditori meccanici di motori, trattori, motociclette, compressori. Un veterano a cui non sfuggono le nuove opportunità del momento è Angelo Motta, che ha cominciato a lavorare all’inizio del secolo. Inventa il Mottarello, che la pubblicità decanta come «il gelato da passeggio», igienico e gustoso. Motta è fatto della stessa pasta di Gaslini. Brianzolo[6], viene a Milano a piedi nel 1899 e inizia come garzone di fornaio. Applica la sua prima, vincente intuizione - fabbricare panettoni con procedimento industriale e non più artigianale - al gelato che, confezionato, diventa un simbolo delle poche e semplici felicità degli anni Cinquanta. Come spesso accade, 144 un’invenzione azzeccata stimola la concorrenza. A Milano due industriali del dolce si contenderanno il primato nel settore, Motta e Alemagna. Entrambi hanno i propri tifosi e le proprie caramelle di derivazione americana: Life Savers e Charms. Il cappello di feltro per i congolesi Il punto di vista dei comunisti sul boom industriale è radicalmente diverso. Loro il miracolo non lo vedono, così come non avevano visto la ricostruzione. Nel '51 il giovane Bruno Trentin propone su «Rinascita» quesťanalisi della situazione: «La politica governativa di smobilitazione attualmente in atto ... e l’estensione della crisi nelle industrie di base del settore privato ripropongono all’attenzione della classe operaia e di tutto il popolo italiano il problema della vita o della morte dell’industria metalmeccanica». Nell’ottobre '56 la cellula Gramsci della sezione Monforte di Milano vota una mozione che approva «la dichiarazione programmatica del Partito comunista, intesa come ipotesi scientifica di lavoro per la trasformazione in senso democratico e socialista della società italiana, tuttora ancorata, a undici anni dalla Liberazione, a forme di anarchia capitalistico feudale». Nel gennaio '58 si costituisce la Federazione comunista di Monza e della Brianza, una zona «bianca», e il compagno Giovanni Verderio avanza un’accusa contro i padroni e i loro sistemi: l’industria del cappello di feltro, che ha fatto ricchi i monzesi, è entrata in crisi perché il governo pratica <«una politica ostile verso i paesi socialisti e verso i movimenti d’indipendenza dei popoli coloniali». Se il cappello di feltro non vende più come una volta in Europa, insomma, perché non proporlo in Africa, Medio Oriente e Cina? Per i comunisti, il miracolo è un’illusione ottica. La realtà è che l’industria metalmeccanica sta morendo, uccisa dai padroni, che il capitalismo sta in piedi per caso e 145 che i padroni sono disposti a tutto pur di piegare i lavoratori. Togliatti è molto convincente quando spiega ai seguaci che gli imprenditori non hanno alcun interesse a uno sviluppo industriale capace di dare numero e forza alla classe operaia che i padroni temono sopra ogni altra cosa. Mentre i lavoratori abbandonano i campi per le officine a decine di migliaia, i comunisti negano l’evidenza e sostengono che l’industria non cresce, non va. Distratta, quasi estraniata dai problemi della sopravvivenza concreta in fabbrica, la cgil non si accorge neppure che quegli «anarchici feudali» tra il '50 e il '54 stanno introducendo negli stabilimenti nuove macchine e vogliono arruolare operai volonterosi e docili, che sappiano lavorare su quei congegni. È in corso una rivoluzione tecnologica, ma la cgil vede solo che è in atto un’opera di repressione politica e, poiché non collega l’uno e l’altro fenomeno, finisce per subire nel '55 una solenne sconfitta. L’operaio Gaspare è molto severo con il sindacato e a metà degli anni Cinquanta si accorge che «Con l’introduzione delle macchine, molte lavorazioni hanno subito delle radicali trasformazioni; rispetto a una volta, la fatica normale degli operai è diminuita del 35% e questo ha significato che la manodopera di prima si è invecchiata molto e non è più adatta a far funzionare i nuovi impianti». Alla cgil non preme affatto il miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Sono la nato, la guerra di Corea, la «controrivoluzione ungherese» a occupare cuore e cervello dei militanti comunisti. Se vince la causa della pace e della democrazia, spiega Togliatti, allora anche i problemi degli operai, che diventeranno la classe dirigente, saranno risolti d’un colpo. Alle Acciaierie di Terni, nel ‘50 i duecento comunisti che lavoravano lì prima della guerra hanno conservato il posto e la paga «perché il pci ha avuto l’accortezza di lasciare gli stessi caporaletti che c’erano in periodo fascista», racconta Giovanni Russo sul «Mondo». Piegare la testa e sognare è necessario e cosi i comunisti ammirano la «Russia 146 dove si lavora rutti» e l’operaio Libero, che è anarchico, commenta: «Le bevono tutte sulla Russia, come prima le bevevano tutte sulla Germania». I comunisti, che aspettano fiduciosi il crollo finale del capitalismo, ne spiano le contraddizioni ma non sono in grado di analizzarne i successi. L’approccio dottrinario impedisce loro un sereno esame della realtà e il loro estraniamento dal miracolo dovrebbe decretarne la solenne e definitiva sconfitta. Invece no. Il sindacato comunista trova un alleato formidabile in quegli imprenditori che gli somigliano, avversari di ogni novità e di qualsiasi cambiamento. I padroni che evadono i contributi sociali, che preferiscono pagare lo straordinario piuttosto che assumere altro personale, che non reinvestono i loro guadagni ma si comperano la barca e portano i soldi in Svizzera, rispondono perfettamente allo stereotipo marxista. La grande paura, che ha radici antiche e attraversa gli anni Cinquanta, è quella della disoccupazione. Per l’intero decennio si svolge il lungo braccio di ferro su questo problema, che per governo e Parlamento ě una questione legislativa, per il sindacato un punto d’onore, per gli imprenditori un costo che deve essere il più basso possibile. La cgil difende il suo punto d’onore e trasforma i licenziamenti in persecuzioni politiche. Racconta l'operaio Osvaldo: «Una volta ci hanno fatto scioperare perché un attivista comunista aveva, durante una discussione, dato uno schiaffo a un capo e la direzione voleva licenziarlo. Ora non so chi avesse ragione o torto in quella discussione, sta di fatto che quando uno picchia è un violento e non bisogna farlo diventare, come hanno fatto quelli della cgil, un eroe». I comunisti, che hanno del lavoro una concezione difensiva e corporativa, peraltro condivisa dai politici della sinistra democristiana, ritengono che il meglio che si può fare in proposito sia un provvedimento di legge, come il blocco dei licenziamenti. Per questo amano e propugnano i sussidi, le rianimazioni, le provvidenze e i divieti. Mentre 147 la cgil, cinghia di trasmissione del pci, si oppone all’iniziativa imprenditoriale e difende sempre lo status quo ante. In Sicilia le miniere di zolfo non rendono più perché lo zolfo americano si estrae a costi più bassi, e contro la concorrenza c’è poco da fare. Nel '52 quaranta poveri minatori della miniera di Cabernardi, che guadagnano un pugno di lire al giorno per un mestiere infame, si chiudono nei pozzi per protestare contro l’imminente chiusura. Il pci locale dà loro man forte: «Compagni, la miniera non è affatto esaurita, il padrone vi imbroglia». I carabinieri presidiano le uscite, le mogli piangono. Tornano i giorni della paura delle rivolte contadine. Da Roma, dove nessuno capisce niente di questa storia dello zolfo, inviano una commissione. I commissari guardano, non sanno che pesci pigliare, se ne ritornano nella capitale. Stretti tra il cinismo dei comunisti e l’ignoranza dei politici, i minatori restano comunque senza lavoro. Nel '51, gli americani si apprestano a costruire a Livorno il Logistical Command, un centra di smistamento di mezzi e attrezzature militari destinati alle basi nel Nord Est, che può dar lavoro a 2000 persone; in città e provincia i disoccupati sono 14 mila, ma i comunisti si oppongono. Lancia un allarme il sindaco Furio Diaz: quella del centra smistamento è una trappola; Livorno sarà militarizzata, siamo finiti, l’industria non si insedierà più qui, addio sviluppo, addio lavoro. Il pci organizza subito manifestazioni antiamericane per la pace e la democrazia, con grande afflusso di militanti dalle province vicine. Un giorno i portuali, quasi tutti comunisti, si riuniscono in assemblea per discutere se aderire q sabotare l’iniziativa. Su 1100 presenti, alzano la mano i filoamericani: 114. Troppi. è richiesto un secondo scrutinio, ma questa volta segreto poiché, ragionano i compagni, c’è chi alza la mano per far bella figura e candidarsi all’assunzione. Si rivota e i favorevoli salgono a 976. Due anni dopo, alla vigilia delle elezioni 148 politiche, i portuali del Logistical Command sono ben 3000. Al declino del porto di Ancona, forse in ogni caso inevitabile, contribuisce attivamente la rigidità dogmatica dei comunisti. Nell’estate 1950 due navi straniere aspettano il varo per mesi perché gli operai scioperano contro i licenziamenti. Poi i portuali smettono di scaricare navi che portano armi americane per protestare, al solito, contro !a guerra di Corea. Il porto funziona a singhiozzo, i disoccupati crescono, ai moli attraccano ormai poche navi. La causa dell’ideologia è servita, quella del benessere no. Ma allorché la causa di partito combacia con l’interesse personále, tutto va a posto. Nel '51 a Poggiorsini, una frazione di Gravina di Puglia, c'è da costruire una strada e i 32 milioni necessari li promette lo Stato. I lavori vengono assegnati alla Cooperativa bolscevica, presieduta dal locale segretario del PCI. Subito 51 braccianti vi s’iscrivono e il segretario presidente garantisce loro, oltre alla paga, una razione di olio e farina. Iniziano i lavori, passano i giorni, la paga non si vede. Il compagno segretario sobilla i suoi: «È lo Stato che tarda a pagare, ma pagherà. O gliela faremo vedere noi» e trascorrono otto mesi. L’istinto guida gli improvvisati compagni a scoprire che i primi soldi, due milioni, li ha imboscati proprio il segretario. Tutti restituiscono la tessera e s’iscrivono alla DC, che promette un posto di lavoro nelle bonifiche. Il miracolo è arrivato fulmineo e inaspettato per gli italiani, che per molto tempo ancora non si riprendono dallo stupore e soprattutto non riescono a impadronirsi dei meccanismi dello sviluppo industriale. Se a sinistra i comunisti insistono nel considerare l’aspetto anarchico feudale, chi ha forti radici cattoliche interpreta il boom, per l’appunto, come un prodigio divino. Così, per ottenere un lavoro, un salario, per accedere al benessere, è opportuno e utile soprattutto pregare. Una disoccupata confida al sacerdote ne! '55 che ha tentato di tutto per trovare un impiego: «Ho sperato nell’aiuto divino, 149 ho pregato e ho fatto pregare, ho fatto celebrare sante messe e ora mi trovo scoraggiata e delusa». Il prete, che s’intende di miracoli ma non di economia, preferisce tenersi sulle generali: «Gli atti di speranza in Dio non rimarranno senza effetto, avranno il loro premio quando e nel modo che Dio vorrà». ________________________________ [1] Federazione Impiegati e Operai Metallurgici, nome di un’organizzazione sindacale [2] famiglia [3] Ente nazionale idrocarburi [4] Partito liberale italiano [5] carpigiano [1860; der. di Carpi, nome di una località in provincia di Modena, con –igiano] agg., di Carpi | agg., s.m., nativo o abitante di Carpi [6] Nativo e abitante della Brianza