Boneschi, M. Poveri ma belli, Quattro mura e quattro ruote, pp. 150-167 1. Imparare parole nuove (allegato) 2. Individuare nel testo i prestiti in italiano da altre lingue 3. Individuare nel testo parole composte 4. Esaminare l’ordine delle parole individuando strutture con l’ordine sintatticamente marcato 5. Individuare nel testo predicati analitici Come sarà l’anno duemila? Chissà. Nei primi giorni del '55 il settimanale «Famiglia cristiana» azzarda una rosea previsione: «La fame sarà bandita dal mondo. Ogni individuo avrà facilmente le cose necessarie alla vita. Il bagno in casa e l’automobile alla porta non saranno più un lusso». Quella del bagno in casa e dell’automobile alla porta rappresenta una tappa obbligatoria nella lunga marcia verso la felicità che gli italiani intraprendono non appena cessati i bombardamenti e l’occupazione. Quanti di loro, però, s’immaginano che le due conquiste diverranno realtà molto prima della fine del secolo? Per ora il salario basta appena per campare, altro che automobile. Eppure, a forza di risparmi e di cambiali, di Monte dei pegni e di orario straordinario, di fatica e di rinunce, il bagno e l’automobile si materializzano entro il '60, facendo degli italiani persone più pulite e più veloci. Il bagno in casa, con water, vasca, bidet e acqua calda e fredda, segna un confine di civiltà dal quale non si torna più indietro: chi prende l’abitudine di lavarsi non tollera la sporcizia addosso a sé e agli altri. La toilette rafforza la democrazia: le masse di miserabili e infelici manovrati dalle dittature, a pensarci bene, il bagno non l’avevano. E neppure l’automobile, quel prodigio dell’industria che assicura la libertà individuale sotto forma di movimento, velocità, comunicazione. È lei a dare comfort e dignità a chi va e torna dal lavoro. È lei che accorda le distanze e fa scoprire mondi nuovi; la campagna ai cittadini, la metro- 151 poli ai «pacchiani» (Come chiamano a Napoli gli abitanti del contado) e ai «baggiani» (versione milanese della stessa parola). Gli uni vanno fuori porta nel giorno di festa, gli altri si spingono a far compere in città nei giorni feriali. L’avvento della Cinquecento e, prima ancora, della Seicento cambia la mobilita e la moralità. Grazie all’utilitaria, i ragazzi possono sfuggire al soffocante «fidanzamento in casa» e conoscersi in santa pace, intimamente, nella pace poco santa e molto acrobatica dei sedili. Non ci crede quasi nessuno, all’inizio degli anni Cinquanta, a quel sogno del duemila prospettato da «Famiglia cristiana», eppure si avvera, con la spinta di un mutuo agevolato o di un modulo di richiesta per la casa popolare. È vero, pesa sulle famiglie la monotonia delle rate o l’incubo delle cambiali, ma la posta in gioco vale il sacrificio. Quando scoppia la guerra di Corea, nell’ottobre '50, sono ben pochi gli italiani che praticano l’arte di arredare, abbellire e godersi la casa. Il censimento del '51 indica che un milione di persone vive in baracche, grotte, capanne; in alloggi, insomma, che non meritano il nome di «casa». Del bagno con acqua corrente nell’abitazione dispongono 7 famiglie su 100. Ben pochi hanno un’esperienza diretta dei comfort domestici, bisogna proprio partire da zero per insegnare alla popolazione come si abita in una casa dotata di moderni accessori: siamo ancora all’abc dell’abitare. Comincia così un viaggio di esplorazione e scoperta che ha dell’incredibile, in cui radio, giornali e pubblicità si assumono il compito di educare al nuovo vivere civile, che pone la casa al centro dell’attenzione. Gli elementi base di un arredamento, consiglia con sommaria severità una rivista nei '51, sono: sedie, tavolo, armadio, letto. Intanto anche i produttori di mobili vengono sollecitati a dare il meglio di sé per rispondere alle esigenze del mercato e nel '53 il Centro per lo sviluppo economico di Trieste bandisce un concorso che promette il sostanzioso premio di due milioni e mezzo a chi sia capace di disegnare un arredamento «moderno 152 ed economico» per la stanza da letto, la sala da pranzo e il soggiorno. Attenti a non mescolare i vari stili d’arredamento, ammonisce un giornale, tenete presente che «sono venti», ognuno di un’epoca diversa: se si fa confusione, care signore, il risultato non è brillante. Poi, quando ormai gran parte delle abitazioni vanta una stanza da bagno, qualcuno scopre che la vasca è usata da certe famiglie a tempo pieno, ventiquattr’ore su ventiquattro: al Sud per contenere i pomodori e al Nord per riporre la bicicletta rovesciata. E pensare che a Torino un’azienda che guarda al futuro, la Carrara & Matta, sta già producendo avveniristici scopini in plastica per il water. Poiché alle antiche tradizioni non si strappano tanto facilmente le radici, il salotto gode ancora de! privilegio dei mobili più costosi. Sul buffet, coperto da un centrino di pizzo o lavorato a uncinetto, si appoggia il più bello tra i regali di nozze: l’alzata di argento e vetro o il vassoio con servizio da caffè di porcellana. In salotto non si entra che di rado, meno che mai è permesso l’accesso ai bambini, le porte si aprono solo ai visitatori illustri. Strana gente, gli italiani, che si ammazzano di fatica per costruire un santuario intoccabile ma continuano a mangiare in cucina per non sciupare il tavolo da pranzo buono e le sedie, in legno, una uguale all’altra. Perché questo ben di Dio non si rovini, è meglio pranzare in cucina, seduti sulle vecchie seggiole impagliate, tutte diverse una dall’altra, senza alcuna parentela tra loro, che vengono da chissà dove e sono adatte a salirci sopra con i piedi per cambiare le lampadine. Ai lampadari? No, di certo. Il lampadario, se e quando c’è, fa da blasone nel salotto. In cucina, dal soffitto pende un filo elettrico, appena decorato da un piatto in vetro latteo, orlato di rosso scuro, rosa o blu. Antiquariato del Novecento e televisori dell’Ottocento Gli «allievi», comunque, fanno progressi a passi da gigante e nel '56 suona già una musica diversa, ben più sofi- 153 sticata. L’architetto, che ormai i consigli li distribuisce in televisione, superate le «lezioni base», passa a questioni più avanzate di cultura e di sostanza: la casa dev’essere geometrica, ariosa. Dividetela in spazio giorno e spazio notte, e comperate mobili di serie, smontabili e ricomponibili. Non fate figuracce, il buffet e il controbuffet ingombrano, non usano più, vostra suocera insiste per la tappezzeria damascata di un bel verde bosco intonato al sofà? Fatele capire con garbo che è casa vostra, non sua. Le pareti colorate portano allegria, potete dipingerle da soli con Ducotone lavabile. «Il colore allarga le pareti» recita lo slogan del concorrente Tintal. Nell’ingresso sta sempre bene l’applique, sul divano una copertura di cretonne a fiori oppure di chintz. Nel tinello, il pranzo può essere servito su una disinvolta tovaglia a quadrettini. Eppure gli italiani resistono, osserva Melchiorre Bega, l’architetto milanese costruttore di grattacieli: abitano volentieri edifici moderni, vanno fieri dei loro condomini razionali, ma chi riesce mai a far entrare nelle loro teste la modernità e nelle loro case lo «stile nordico»? Non è semplice, con tutti quei venti stili d’arredamento, assorbire anche questo, il ventunesimo, che è lo stile semplice dei paesi scandinavi. Non c’è verso, sono attaccati al mobile d’epoca. Chi non ha ereditato un comò e non può permettersi il lusso di firmare un assegno all’antiquario, trova una soluzione patriottica: il mobile finto-antico, meglio se fabbricato in Brianza e nel veronese, dove centinaia di artigiani si sono rivelati bravissimi nelle imitazioni. Nasce dal genio italiano il ventiduesimo stile, quello dell’arredamento di Cantù. Il ventitreesimo, invece, è lo stile dei parvenu, sempre più numerosi in questi anni di arricchimento diffuso, e sempre più chiassosamente presenti in società. Le case dei ricchi di fresca data si distinguono dalle abitazioni dei ricchi di antica tradizione perché li tutto è nuovo, come il denaro dei padroni. È difficile per loro imparare a memoria che i vocaboli «vecchio» e «antico» non si equivalgono. è 154 Guido Piovene a riportare una conversazione origliata nel vagone ristorante del treno Venezia-Milano. Un architetto chiacchiera con una coppia di coniugi e domanda: «Allora, signora, ha deciso quali quadri attaccare sopra gli stucchi delle porte?». E lei: «Mah, adesso ci sono i De Pisis, però li voglio buttar via». «Buttar via, buttar via,» interviene il marito «piano, son sempre soldi. Mi sono costati dieci milioni.» E lei: «Lo sai benissimo che quando ci sono gli stucchi ci va sopra un Fragonard! E se mi stufo anche di quello?». Un De Pisis grava sul bilancio del riccone all’incirca come un frigorifero su quello della gente comune. Quando bussa alla porta delle case di buona famiglia, proprio intorno al '50, il frigorifero d’importazione tedesca o americana costa due mesi di stipendio di un operaio. Da allora in poi il frigo, chiamato sulle prime frigidaire, alla francese, dilaga e nel '58 l’italiana Rex propone addirittura una gamma di sei modelli adatti a ogni esigenza. È tanto utile ma così brutto, tutto bianco e freddo, si lamenta una padrona di casa rivolgendosi all’architetto, che le suggerisce: lo arricchisca di una copertura di stoffa, magari scozzese, e vedrà l’effettone. La cucina è la stanza che cambia radicalmente aspetto negli anni Cinquanta. Se nel passato c’erano solo un tavolo, la credenza, la cucina a carbonella o a gas, occorre ora far spazio a una nuova popolazione: dopo il frigorifero, che sloggia la ghiacciaia e lascia senza lavoro i portatori di ghiaccio che lo consegnavano di casa in casa, con le lunghe sbarre avvolte in teli di stoffa, è la volta della lavabiancheria, della lavastoviglie e di un corteggio di elettrodomestici minori che comunque, tutti insieme, rivoluzionano la «catena di produzione» del pranzo, proprio come il fordismo e il taylorismo hanno generato la motorizzazione di massa. Grazie al frigorifero, non è più necessario fare la spesa quotidianamente. Si risparmiano ore di fatica con la lavabiancheria. Si preparano, anche in poco tempo, cibi come il pure, il soufflé, il pâté, il frappé, tutte cose sofisticate, 155 grazie al tritatutto - antenato degli odierni robot domestici - che viene dalla Francia e marcia, almeno agli inizi, a forza di muscoli. A Milano c’è una ditta proiettata verso il futuro, la Rheem Safim, che costruisce il mobilio tutto metallico, in acciaio inossidabile. L’effetto d’insieme richiama un laboratorio scientifico o la sala comandi di un’astronave, ma è semplicemente «la cucina moderna per ogni famiglia italiana». Se non è d’acciaio, può essere di formica, una materia plastica prodotta a Magenta, in Lombardia, igienica, moderna, lavabile e inalterabile. L’hanno usata, a onore e gloria dell’ingegnosità italiana, anche per arredare l’hotel Waldorf Astoria a New York. Se la cucina assume l’aspetto di un’astronave, come si può immaginare di vivere li dentro? Non è facile né immediato, ma alla fine praticità e comodità trionfano sull’arcaico focolare. Grazie, America! La scarsità di manodopera al di là dell’Atlantico ha costretto all’invenzione della vita meccanizzata, capace di risparmiare la fatica dei lavori casalinghi. Dopo il suffragio universale, tocca agli elettrodomestici allargare la sfera delle libertà e del potere femminile. Abbiamo appena digerito l’irruzione del frigo, che subito occorre affrontare altre compatibilità domestiche. Come convivere con il televisore? Semplice, risponde l’architetto, basta armonizzarlo con l’ambiente. Una radio nuda e cruda costa soltanto 25 mila lire, ma i negozianti sanno benissimo che le famiglie, in questo caso, non badano a spese: preferiscono spenderne 250 per comperare la radio inclusa nel mobile di legno in stile Ottocento. Nel '50 i proprietari di radio sono quattro milioni, ma nel '59 le famiglie dotate di televisore ammontano già a un milione e mezzo. Non c’è da meravigliarsi che, tra tutta questa gente, sbuchi una signora neoabbiente che pretende di sposare a forza il tubo catodico ai Borbone e agli Orléans e assicura di averne comperato uno «in stile Luigi Filippo XIV». Il televisore moderno, di gusto americano e lineare, di- 156 stingue i nuclei familiari metropolitani e coiti; gli altri, quelli campagnoli e proletari, l’apparecchio lo scelgono in finta radica, profilato in legno scuro, insomma prediligono l’oggetto che ammobilia. Anche il televisore, all’inizio ďimportazione, diventa presto un prodotto made in Italy. La Geloso, fabbrica lombarda tra le prime a introdurre i dittafoni in ufficio, ne propone un modello proprio così, di foggia artistica e antiquaria che non stona affatto con il trumeau, E se non ci si può permettere che il modello più spoglio ed economico, lo si tratta come si tratta il buffet: centrino di pizzo, lampada in plastica che imita l’opaline, pastorella di porcellana. Il confine tra l’indigenza e il benessere è ormai varcato alla vigilia del Natale 1956. Basta dare un’occhiata alla pubblicità, alle vetrine dei negozi, ai consigli delle riviste femminili. È un diluvio di regali ornamentali, di oggettini superflui, di frivole sciocchezzuole. Chi ama la pace domestica e lo stile inglese, suggerisce una rivista, comperi lo stivaletto portafiammiferi; da solo, oppure accoppiato allo stivaletto portasigarette. A «lui» fate trovare sotto l’albero la staffa portapipe, il segnabicchieri a uccellino, il boccale di birra che va adoperato come un pratico portamatite. I portachiavi assumono travestimenti esotici, antiquari, artistici, come la clessidra in stile medioevo e la bussola barocca, o sono doppio uso, come quello che conserva anche le pillole, in stile Luigi XV, il commercio internazionale si è aperto come non era mai successo prima nella storia dell’uomo e la casa si schiude perfino al gusto di paesi lontani. La lucidatrice americana passa su tutti i pavimenti e in camera dei ragazzi è comoda la libreria svedese in tek. Come portacenere non stona in salotto la scodella da riso giapponese dipinta in bianco e blu. Dopo la casa e l’automobile, pretendiamo di possedere tutto, l’utile e il dilettevole, l’indispensabile e il superfluo. Nel '59, quando Mina canta Tintarella di luna, tutto è cam-biato: 27 case su 100 hanno il bagno e le comodità domestiche sono il sogno realizzato di milioni di famiglie. 157 Una casa è bene, due case meglio Nel '57 anche gli operai hanno il sabato libero. Con il bagno in casa e l’automobile sotto casa, che fare adesso? Costruirsi o comperare una seconda abitazione, fuori città, per trascorrervi le vacanze, che si allungano e diventano una parte sostanziosa e importante della vita di famiglia. Come la prima casa, anche la seconda richiede una buona dose di benessere e civiltà, accompagnata tuttavia da una colata di mattoni e cemento. Il fatto è che nella di-struzione del paesaggio molti italiani vedono il segno della propria ascesa sociale. Siamo ancora alla vendetta del contadino contro la natura. A Capo Nero, tra Sanremo e Ospedaletti, i costruttori offrono un’abitazione di vacanza, economica, «vista mare», che hanno chiamato Bastimento. Si tratta infatti di un condominio bianco a forma di parallelepipedo, geometrico e devastante. Colpa dell’architetto o del geometra? o, forse, dell’impresario? Macché, non tocca a loro tutelare il paesaggio. Gli amministratori pubblici cominciano a dare prova di spregiudicatezza e la Riviera ligure è una vittima predestinata. Nel '58 diventa chiaro che neppure la Riviera adriatica è immune dal contagio cementizio: i turisti sono invitati a visitare a Cesenatico il grattacielo in cemento armato più alto d’Europa, che con i suoi 125 metri ha battuto il confratello milanese di piazza della Repubblica. Nel '59 si progetta una colata di condomini lungo la scogliera di Sori, ma ancora prima che questi sorgano, altri casermoni spuntano tra i boschi delle Prealpi e delle Alpi. Uno all’americana è già pronto nel '51 a Salice d’Ulzio, si chiama Alpino Miramonti e promette riscaldamento centrale, ascensore, telefono, lavanderia automatica e ristorante. Dunque, il sogno del duemila prospettato da «Famiglia cristiana» si è realizzato ben al di là di ogni immaginazione e le case non possiedono solo un bagno, ma anche il garage. 158 «Mi faccio la 1400» Chi può permettersi il lusso di «farsi» una 1400, la grossa berlina fiat che porta la data del 1950, di solito è commerciante o industriale. Una 1400 parcheggiata in strada suscita ammirazione mista a invidia. Indignato, l’operaio Gaspare constata che «una volta i bottegai erano nelle mie condizioni, ora a furia di speculare, li vedi girare in 1400». L’industriale Giovanni S. di Macerata vorrebbe comperarsene una, «ma nelle conversazioni al caffè alcuni amici mi hanno fatto rimanere dubbioso»: sarà davvero un buon acquisto? Vittorio Emanuele Marzotto, che è un corridore, se ne dichiara entusiasta, ricorda però ai profani che un conto è acquistare una macchina così lussuosa, un altro è mantenerla: riparazioni, benzina e pezzi di ricambio costano parecchio. Nel '51 sono state immatricolate in tutto 100 mila automobili e di 1400 ne circolano in Italia 20 mila esemplari. A Milano si conta un’automobile ogni 26 abitanti, mentre a Napoli ce n’è una ogni 100. L’industria automobilistica nazionale è, al momento, piccola cosa e i modelli italiani presentati al Salone di Parigi del '52, a detta degli esperti, non possono competere con quelli delle grandi case europee. Quello stesso anno la fiat annuncia che non costruirà l’utilitaria, è troppo presto, ma intanto espone la sua nuovissima 1900 e l’Alfa Romeo fa lo stesso. Nel '52 circola in Italia mezzo milione di automobili; tutti i veicoli a motore, comprese le rombanti motociclette, sono, però, 5 milioni abbondanti. Su 100 incidenti mortali, 38 riguardano i motociclisti e soltanto 9 gli automobilisti (i motociclisti conservano a lungo il primato: nel '58 viaggiano su due ruote in 3 milioni, mentre le auto in circolazione ammontano appena a un milione e mezzo). In un paese povero, l’automobile è capace di far restare a bocca aperta. Come accade per la casa e l’arredamento, anche con le quattro ruote dobbiamo cominciare dall’abc. Cerchiamo di prenderne confidenza, ma non è facile per ché 159 gli stessi produttori lanciano messaggi talvolta fuorvianti, Siamo un paese povero e affinché la gente non si monti la testa all’idea che le automobili si compereranno tra breve come il pane e il latte, la fiat fa di tutto per smorzare gli entusiasmi e per non generare aspettative smodate. Nel '51, quando lancia sul mercato la Campagnola a trazione integrale, si prende cura di presentarla come un veicolo che «non conosce ostacoli, è di particolare convenienza per la vita di campagna e per l’agricoltura», e cade poi nella tentazione retorica: «Uno strumento, come la bonifica, per la redenzione delle nostre terre». Che l’auto possa costituire un oggetto di piacere e di comfort non si dice, non è morale, soprattutto non lo de-vono sapere i giovani, che al volante si montano la testa. Perfino nel '56, quando esce la versione multipla della Seicento, l’azienda torinese sottolinea che il modello è parti-colarmente utile per il trasporto delle merci: porta dodici valigie, due sacchi di patate e due persone. La sensazione che siamo ancora un paese povero ma ormai prossimo al benessere, tuttavia comincia a diffondersi. Così, quando la fiat dichiara che l’utilitaria non è per domani e verrà in un futuro imprecisato, altri tentano di percorrere quella strada. Qualcuno lo fa partendo dalla motocicletta: Renzo Cingolani di Recanati monta una carrozzeria di minime dimensioni su un motorino da scooter. E una produzione artigianale, non ha futuro. Sempre dallo scooter nasce l’Isetta, l’utilitaria milanese con lo sportello frontale. E così minuscola, da dove altro ci si può infilare? Nel giorno della morte di Stalin, il 5 marzo 1953, la fiat presenta la 1100, una berlina media per famiglia, quasi uguale nelle parti meccaniche al modello del '36, ma in-teramente reinventata nella carrozzeria, che la pubblicità mostra guidata da una donna. 160 La lunga attesa dell’utilitaria rappresenta un’occasione polemica che il sindacato comunista non si lascia sfuggire, ma la maneggia in modo così maldestro che tutto finisce nel ridicolo. Il 18 marzo 1953 il «Lavoro», organo della cgil, pubblica il progetto dell’«auto di cui tutti gli italiani hanno bisogno». Il sindacato, si legge nell’articolo, si preoccupa del progresso dei cittadini a differenza degli industriali - e quindi ha messo a punto un modello di utilitaria realizzabile. Quattro giorni dopo, il disegno dell'auto è stampato sull’«Unità», che precisa: questo è il modello che noi proponiamo, ma quei capitalisti della fiat non vogliono o non sono in grado di realizzarlo. Ebbene, l’auto popolare dell’«Unità» altro non è che un progetto presentato nell’ottobre '51 agli azionisti fiat. Se l’azienda non l’ha messo in produzione, è solo perché comporta ancora costi troppo alti. Bisogna perfezionarlo, per fame un prodotto industriale a basso costo e basso prezzo. Ovvero, come aveva detto in quell’occasione Valletta: «L’utilitaria di uso agevole ed economico è sempre alla base della progettatura fiat, essendo intuitivo che in un paese a economia povera l’automezzo non può altrimenti diffondersi in ceti sempre più vasti». Le case automobilistiche sono orientate, almeno per il momento, su modelli più costosi come la Giulietta, che al Salone di Torino del '54 è presentata in un’edizione fuori serie capace di filare a 160 chilometri all’ora, mentre quella di serie è una berlina con grinta da un milione e mezzo che, come niente, fa i 100 all’ora e porta sei persone. A proposito dell’auto per tutti regna ancora l’incredulità, qualcuno raccomanda di non ascoltare il cuore, ma le ragioni della contabilità. Perfino nel '55, quando entra in commercio la Seicento, un esperto dimostra, cifre alla mano, che anche l’utilitaria tanto attesa non è affatto per tutti. Chi ha un reddito di centomila lire al mese - ce l’hanno impiegati di buon livello, professionisti, magistrati con qualche anno 161 di carriera, cioè una minoranza - non si faccia illusioni: magari può comperarla, se compie un triplo salto mortale e s’ingolfa nei debiti, ma usarla è un altro conto, perché costa almeno 20 mila al mese tra benzina e tasse. Credete agli esperti, ci sarà pure un motivo per il quale l’Italia conta 77 abitanti per ogni automobile circolante e la Francia solo 14! Siamo gente povera, punto e basta. All’auto per tutti non ci crede neanche la fiat, azzarda qualcuno. Hanno ragione i comunisti, non vuol bene al popolo. Tant’è che, mentre a Torino si accinge a fabbricare la «costosa» Seicento, a Milano costituisce una società con Pirelli e Bianchi per la progettazione e produzione dell’utilitaria «vera», quella da 350 di cilindrata e un prezzo stracciato (mentre la Seicento costa su per giù tre volte una Vespa o una Lambretta). È evidente, quindi, che Valletta non crede fino in fondo a questo progetto e preferisce dividerne il rischio con altre imprese. Di nuovo gli esperti si domandano se un’auto scatoletta meriti il nome di veicolo, soprattutto di fronte alla «dea» che la Citroën presenta al Salone di Parigi nell’autunno 1955, la DS19, morbida e scattante, automatica e regale, studiata per dieci anni e finalmente scesa sulla strada come un prodigio celeste. Quella si che è un’automobile. I commentatori «esperti», i profeti del mercato hanno torto. Ha ragione invece il professor Valletta, che il mercato non l’ha letto sui libri. Grazie agli investimenti miliardari e a un’attenta preparazione, la Seicento è un successo. Cosa importa se le famiglie non hanno soldi per comperarla? Chi salta i pasti, chi fa debiti, chi paga a rate, chi s’ammazza lavorando extra e chi va a impegnare il vassoietto ďargento: la Seicento è irresistibile, perché accosta il sogno alla punta delle dita. È uno dei miracoli della Madonna di Pompei o un prodigio dell’italica ostinazione? Nel '57 il numero degli abitanti per automobile è sceso a 39 e ancora una volta la statistica molla uno schiaffo ai profeti di povertà. Nello stesso anno debutta la Nuova Cinquecento (quella 162 «vecchia» non è altro che Tamara Topolino, che nel '50 valeva un anno di stipendio di un impiegato): larga poco più di un metro, costa all’inizio 480 mila lire, intanto l’Autobianchi prepara la Bianchina, dotata di un motore simile alla Cinquecento e di una carrozzeria tipo berlina in miniatura, che lancia con lo slogan «La fuoriserie per tutti». Anche la Piaggio ci prova e mette a punto una due posti, 350 di cilindrata, ma poi deve rinunciare a produrla in serie. Quello dell’utilitaria è un terreno che fa degli italiani dei concorrenti imbattibili; questo vale in particolare per la fiat, che ci ha preso gusto, è l’unica casa europea a possedeva la capacità di progettare e produrre auto di questo tipo, che piacciono e costano poco. Unica eccezione, forse, gli inglesi che, «scottati» dalla crisi di Suez e dalla prospettiva di un rincaro della benzina, progettano e mettono in vendita nel '59 l’immortale Mini Morris. Ma quando, nel '58, i tedeschi propongono la Prinz 600, un cubetto di lamiera privo di charme e di comodità, la superiorità delle nostre «piccine» balza agli occhi e inorgoglisce. Certo, il confronto con l’America è schiacciante. Al di là dell’Atlantico girano su macchine lunghe cinque metri, con alette cromate e pinne bicolori che, paragonate alle nostre, sembrano transatlantici vicini a una scatola d’acciughe. È il gusto d’oltreoceano a ispirare la fiat 1800, in circolazione nel '59: angoli e spigoli, profili cromati, prezzo cinque volte maggiore della Cinquecento. Quell’ «auto sotto casa» che doveva essere realtà nel duemila ha compiuto una formidabile corsa. Si trova già lì nel '59, grande o piccola, rombante e attrezzata per i molti piaceri della vita. Come, per esempio, ascoltare la musica. Alla fine del decennio, infatti, l’attenzione si sposta sugli accessori, tra cui, appunto, la radio. E se qualcuno si allarma per l’aumento degli incidenti mortali e per il ritardo nell’entrata in vigore del Codice della strada, la Voxson stimola l’acquolina in bocca mostrando il suo ultimo prodotto: una minuscola radiolina a transistor incorporata nello specchietto retrovisore. 163 Come la casa, anche l’auto va arredata. Personalizzata, dicono i venditori, che consigliano alle buone mogli e madri di regalare al marito un san Cristoforo magnetico da attaccare al cruscotto, con la scritta «Vai piano, pensa a noi» e la foto dei bimbi sorridenti. Con san Cristoforo siamo nel campo dello spirito civico e dell’educazione stradale, mentre il cane semovente di peluche, che va ad abitare stabilmente dietro il lunotto posteriore e annuisce a ogni curva e a ogni frenata, obbedisce a ragioni puramente ornamentali. Basta imparare le regole e con l’automobile ce la si può spassare in mille modi. Qualche volta ci si diverte a fare il tifo alle corse degli altri e le corse automobilistiche generano nuova passione per la guida, per la velocità, per l’auto propria. I superuomini e le supermacchine I patiti dell’automobile si danno appuntamento una volta l’anno alla Mille miglia, che fa sfilare auto rombanti e campioni da delirio, anche se sempre più spesso, negli anni Cinquanta, finisce in tragedia. Ma è proprio questo che rende i corridori, almeno agli occhi del pubblico, degli eroi o dei superuomini. È una corsa da brivido: nel '53 l’Alfa Romeo porta in gara la sua 3000, capace di toccare i 250-270 chilometri all’ora, quando i modelli più veloci sulle strade normali viaggiano tra gli 80 e i 100. Proprio nell’estate 1953 si spegne a Mantova il leggendario Tazio Nuvolari, sessantunenne pioniere dell’automobilismo, che da anni soffriva per le conseguenze di un’intossicazione da gas. Nel '54 Alberto Ascari partecipa per la quarta volta alla Mille miglia su una Lancia 3500. A Desenzano uno spettatore sventato lo abbaglia con un faro, che serve a vedere i numeri dipinti sulle vetture per identificare i campioni. È un disastro, Ascari perde il controllo, sbanda e l’incidente finisce con un morto e un ferito tra il pubblico. Nella stessa corsa, Nino Farina si rompe un braccio ed Eugenio Castellotti resta 164 a piedi per un guasto. Vince Ascari, sopravvissuto ai guai e ai rivali. Nel maggio '55 Ascari è vittima a Montecarlo di un pauroso volo in mare, ma quattro giorni più tardi è a Monza per gareggiare: «Ormai il tuffo» dichiara «è cosa passata. Per un corridore conta solo il domani. A Montecarlo mi ha protetto la mia buona Stella». La Stella ha fatto il suo dovere per l’ultima volta: Alberto muore durante le prove, sul circuito di Monza, esattamente trent’anni dopo la scomparsa del padre Antonio che ha perso la vita a Monthléry, in Francia. Si parla ovviamente di «tragica fatalità», ma anche del fatto che la pista monzese, nel punto in cui è morto Ascari, è troppo stretta e poco sicura. In quell’occasione la vittoria se l’aggiudica Manuel Fangio, un ex meccanico, figlio del contadino abruzzese Loreto che, poverissimo, era emigrato in Argentina tanti anni prima. Nel '57 il figlio dell’emigrato conquista il titolo mondiale. Nella Mille miglia del '55 Eugenio Castellotti corre con il muletto della Ferrari e fa una gran fatica a terminare la gara, ma all’arrivo c’è la mamma che lo aspetta e gli asciuga il sudore. L’anno precedente, sempre alla Mille miglia, era entrato nella leggenda dell’automobilismo, riuscendo a vincere pur avendo guidato senza occhiali di protezione e per di più sotto una pioggia battente. Li ha dimenticati, per la fretta, al rifornimento. Schizza via e, quando s’accorge della distrazione, sa benissimo che recuperare gli occhiali equivale a perdere la gara. Taglia il traguardo con gli occhi gonfi. Bello, coraggioso, e ricco proprietario di terre nel lodigiano, Castellotti si schianta a Modena nella primavera 1957. Nell’autunno successivo avrebbe dovuto sposare Delia Scala, bella e briosa soubrette. La loro storia spezzata è uno dei grandi amori che fanno piangere gli italiani negli anni Cinquanta. La Mille miglia si trasforma intanto in un appuntamento con la morte: nel '57 a Guidizzolo, sulla strada tra Brescia e Mantova, passa a 270 chilometri all’ora l’auto guidata da 165 Alfonso Cabeza de Vaca, marchese de Portago, fidanzato della bella, benché veterana di parecchi matrimoni, Linda Christian. Scoppia il pneumatico anteriore, la macchina sbanda travolgendo nove spettatori. I morti, in un solo istante, sono undici. Tra gli altri perdono la vita il pilota e il suo secondo, il giornalista americano Edmund Nelson. Vince Piero Taruffi, che l’ha scampata da trent’anni. Il viaggio in auto più simile alle corse dei campioni è quello che si compie in fuoriserie, la regina dei desideri, che rappresenta il meglio della meccanica, della velocità e della comodità. Se è inarrivabile, cosa importa? L’industria italiana non si ferma davanti ai dettagli e prova, ri-prova, inventa finché trova una soluzione alla portata di quasi tutti. Come va a finire, lo racconta Guido Piovene: «Il desiderio di una macchina fuori serie è così vivace che sono sorte fuoriserie per i meno abbienti. Un carrozziere apporta qualche ritocco alle automobili normali per il prezzo di una Lambretta. La vera fuoriserie, unica e stravagante, oggi pero va morendo. Si va divulgando invece la fuori serie in serie, che è una specie di media tra l’indole industriale del nostro tempo e l’indole vana degli uomini». Nel '58 si vendono 52 esemplari della Maserati 3500, due su tre le comperano gli italiani, ormai liberati dall’etichetta di popolo povero. Un sederino anticomunista La Vespa è uno scooter, frutto della riconversione industriale postbellica e figlio della Repubblica. La Piaggio di Pontedera, durante la guerra, è una delle industrie impegnate nella costruzione di aerei, che in tempo di pace sono meno richiesti. Bisogna quindi trovare alla fabbrica una nuova vocazione, questa volta pacifica, e un nuovo prodotto. È così che intorno a una specie di motorino d’avviamento per aereo, ormai in disuso, gli operai della Piaggio sotto la guida dell’ingegner Corradino D’Ascanio costruiscono la piccola moto, economica, maneggevole, elegante 166 con il suo sederino di vespa. L’accompagna sul mercato uno slogan che la presenta come «la piccola vettura a due ruote». L’anno dopo nasce all’Innocenti di Milano, un’altra azienda in fase di riconversione, la Lambretta. Tra i vespisti e i lambrettisti corre una rivalità che non ha paragoni né con l’eterno duello tra Coppi e Bartali, né con la guerra fredda tra Callas e Tebaldi. Va dappertutto, promette la pubblicità della Lambretta e, per dimostrarlo, chiama a testimoni i lambrettisti e lancia un concorso a premi. Nel '54 un giovane aristocratico milanese, Franco Cacciaguerra, vince un milione, il primo premio, grazie al fatto che ha percorso oltre 21 mila chilometri, da Pesaro a Nuova Delhi e ritorno. Non è facile batterlo, ma l’anno seguente ci riesce Cesare Battaglini di Bologna, che in Lambretta va fino a Ceylon e poi torna per incassare il meritato milione. Nel '50 circolano 50 mila scooter, tra Vespe e Lambrette. Il 29 ottobre 1953 alla Piaggio si celebra il mezzo milione di Vespe prodotte, durante la cerimonia il vescovo di Pisa benedice il cinquecentomillesimo scooter, mentre Enrico Piaggio premia gli anziani che hanno ricostruito e riconvertito lo stabilimento, con-tribuendo alla rinascita della ditta. La milionesima Vespa si festeggia nel maggio '56. Nel '52, 88 veicoli su 100 sono a due ruote. Quello abitato dai motociclisti è un continente vasto e inesplorabile, ricco d’avventure ma anche di rischio, visto che meta dei decessi stradali capitano a loro. Mai si rassegneranno al comfort dell’automobile, alla stabilita delle quattro ruote e all’assenza del vento in faccia quelli che hanno abbordato il mondo dei motori cominciando da una Guzzi, da una Gilera, da una Ducati o in sella a una Laverda, a un Mo-tom, al mite Galletto o al terribile Sparviero della Bianchi. Tra i giovanotti emiliani che si radunano al Caffè dello Sport (o al Bar Roma), è di moda una canzonetta che fa così: «Piuttosto di sposarti, mi compro la Gilera». Di marche di motociclette, negli anni Cinquanta, ce ne sono tante quante sono le brillantine: nel '57 le case costruttrici sono 167 117. Che anche i motociclisti votino è un fatto che nessuno dei potenti può permettersi di trascurare. Rivolgendosi a quella cospicua fetta delta popolazione, Alcide De Gasperi dice una volta: «È merito del mio governo aver dato il motoscooter al popolo». Un filo più prolisso, ma sempre per esprimere lo stesso concerto, Pio XII dimostra la sua simpatia per le moto affermando: «Lo scooter ha elevato il livello di vita di categorie sociali che non possono disporre di mezzi più costosi e ha concesso un onesto divertimento cui aspira un giorno la settimana chiunque passi le altre giornate dedite alla fatica». Si apre un dibattito: è stata la Vespa o la riforma agraria a sbarrare la strada al comunismo?