Il «dolce stil novo»: caratteri generali. Conviene subito precisare che il «dolce stil novo» non è, come si potrebbe pensare, e come pensarono nei secoli scorsi gli studiosi, una scuola, come quella siciliana, ma piuttosto è un insieme di esperienze diverse ma anche convergenti, che tentano di formalizzare una nuova poesia d’amore di grande coerenza linguistica e di altrettanta fortissima ambizione intellettuale e che avvertiva l’esigenza di contrapporsi alla tradizione lirica precedente. Per questo motivo, dopo una breve introduzione generale, andremo ad analizzare più che altro le esperienze dei singoli poeti. Il bolognese Guido Guinizzelli è comunemente indicato come il fondatore di questa nuova poesia che però trova la sua piena definizione a Firenze grazie all’opera di Guido Cavalcanti e di Dante Alighieri. La denominazione di «dolce stil novo» risale ad un passo famoso del ventiquattresimo canto del Purgatorio, databile probabilmente tra il 1315 e il 1316, nel quale Dante, immaginando di incontrare, tra i golosi del sesto girone, Bonagiunta Orbicciani, si fa chiedere da lui se veramente egli sia l’autore della straordinaria canzone Donne ch’avete intelletto d’amore. All’invito Dante replica proprio teorizzando la sua poetica che lo vuole trascrittore dei dettami di Amore, vv. 49-54: «…Ma dí s’i’ veggio qui colui che fore trasse le nove rime, cominciando ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’». E io a lui: «I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo Ch’e’ ditta dentro vo significando». Il concetto viene poi ribadito nelle successive parole di Bonagiunta, che sembra comprendere la lontananza di questo nuovo modo di fare poesia rispetto ai siciliani e a Guittone, vv. 55-63: O frate, issa vegg’io – diss’elli – il nodo Che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo! Io veggio bene come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che del le nostre certo non avvenne; e qual più a gradire oltre si mette, non vede più da l’uno a l’altro stilo e, quasi contentato, si tacette. La strategia dantesca si completa con il successivo colloquio con Guido Guinizzelli, questa volta nel canto ventisei del Purgatorio, dove si afferma che Guido fu, appunto, il padre del nuovo stile e si afferma ancor di più il distacco da Guittone e dalla vecchia poesia, vv. 97-99, 104-15, 124-25: […] quand’io odo nomar sé stesso il padre mio e de li altri miei miglior che mai rime d’amor usar dolci e leggiadre […]. Ed elli a me: «tu lasci tal vestigio, per quel ch’io odo, in me, e tanto chiaro, che Leté nol può tòrre né far bigio. Ma se le tue parole or ver giuraro, dimmi che è cagion per che dimostri nel dire e nel guardar d’avermi caro». E io a lui: «Li dolci detti vostri, che quanto durerà l’uso moderno, faranno cari ancora i loro incostri». Così fer molti antichi di Guittone, di grido in grido pur lui dando pregio. Questo è quello che Dante ci dice sul nuovo modo di fare poesia, sui suoi protagonisti e sulla sua idea. Ma quali erano, nello specifico, i contenuti teorici di questa nuova poesia? E quali erano i punti di contatto e di distacco con le precedenti esperienze poetiche? Nell’ottica di Dante in primo piano sono l’atteggiamento e la funzione di Amore, che «spira», ossia crea nell’anima dell’innamorato un movimento psichico, e «ditta dentro», ossia traduce quel movimento in termini linguistico-retorici. Il distacco dalla precedente esperienza poetica è messa in evidenza proprio da questo procedimento: sono essenziali la coscienza teorica e filosofica e la concezione molto precisa dei processi che avvengono nell’anima presa dall’amore e una attenzione particolare ai dibattiti morali, come quello sulla nobiltà e sui rapporti, appunto, tra amore e nobiltà. Una seconda differenza con la precedente poesia sta nel fatto che questo gruppo di poeti non intende definirsi in base ad una precisa collocazione sociale: il loro atteggiamento non è condizionato da una corte regia, come accadeva per i siciliani, o da un contesto comunale e municipale, come avveniva per Guittone d’Arezzo e i suoi seguaci. Questi poeti si riconoscono soprattutto per una scelta: la decisione comune di intendere l’esperienza amorosa come un valore assoluto. Differente è anche il ruolo e il contesto nel quale si muove la donna. A differenza di quello che accadeva per le coorti e i castelli provenzali, la donna dello «stil novo» appare improvvisamente in qualche angolo della città, magari per qualche festività. Il rapporto amoroso, quindi, è fatto di incontri fuggevoli in contesti urbani e sempre situazione corali: il poeta è sempre accompagnato da una schiera di seguaci e solidali, mentre la donna è sempre circondata da altre donne, sulle quali si riflette la sua bellezza. Questi incontri producono degli effetti e degli sconvolgimenti sul poeta che perde tutte le sue facoltà fisiche e psichiche. La poesia, a questo punto, registra con cura questi effetti usando nozioni offerte dalla filosofia e dalla medicina. Guido Guinizzelli. Abbiamo visto, quindi, quali siano i contenuti teorici del nuovo stile e abbiamo visto come Dante, più volte e in più punti afferma come Guido Guinizzelli sia il precursore e il padre della nuova poesia. Pochissime le notizie che abbiamo sulla sua vita. Da alcuni importanti particolari si può intuire che Guido sia nato fra il 1243 e il 1245. La sua attività di rimatore, che qui ci interessa in modo particolare, si può collocare fra il 1263 e il 1274. Guido morì probabilmente a Monselice nel 1276. L’intero corpus dei suoi testi è composto da cinque canzoni (+ due di dubbia attribuzione) e dodici sonetti (+ due tenzoni con Guittone di Arezzo e Bonagiunta Orbicciani) nei quali viene delineata un coerente antropologia amorosa. Il fatto che l’obiettivo poetico e anche i temi spesso possano essere ricondotti alla scuola federiciana e in particolare a Giacomo da Lentini, potrebbe far nascere l’equivoco di considerare Guinizzelli come un epigono della scuola siciliana. Guido, per la verità, ed è questa la sua caratteristica principale non vuole solamente mettersi nel solco di una tradizione poetica già consolidata, limitandosi a riadattarla, come avevano fatto in parte i poeti siculo-toscani, alle esigenze del nuovo pubblico Bolognese e Toscano, ma intende: «conferire una nuova e più mediata legittimazione teorica, per non dire «scientifica» (ispirata alla logica e fisica aristotelica) alla metafisica amorosa su cui si fondava la lirica volgare, non solo Italiana» (cfr. L. Rossi, Introduzione a Guido Guinizzelli, in G. Guinizzelli, Rime, Torino, Einaudi 2002, cit. p. xiv). Da questo punto di vista, dunque, il linguaggio di Guinizzelli apparirà di difficile comprensione, per il suo modo a tratti oscuro, oggi potremmo dire ermetico. La sua concezione dell’amore, si basa anche su una certa aristocrazia della cultura d’amore, considerata come un privilegio non concesso a tutti, e meno che mai ai nobili di nascita, ma riservato a quei pochi eletti che la Natura ha dotato di gentil core. Esemplare per comprendere a pieno la predisposizione di Guido al linguaggio dottrinario e filosofico è la celebre canzone Al cor gentil rempaira sempre amore, utilizzata poi quasi come un manifesto dell’amore stilnovista. Inserendosi nella disputa, molto dibattuta nel duecento, sulla nobiltà, Guinizzelli afferma la stretta solidarietà tra Amore e gentilezza. Ma andiamo a vedere nel dettaglio quali sono le caratteristiche che rendono questa canzone così importante (per l’analisi e il commento dettagliato della canzone si rimanda ai file audio). Nonostante la canzone non si distacchi del tutto dalla produzione precedente, dalla quale riprende elementi essenziali, come lo stesso tema centrale del legame tra amore e gentilezza e quello del colloquio con Dio, il testo ha caratteri innovatori, sia a livello di contenuti che del linguaggio. Il rapporto tra amore e cuor gentile, per esempio, viene affrontato con una nettissima distinzione tra la nobiltà di sangue e la nobiltà interiore: la gentilezza viene separata dal mondo nobiliare e feudale e viene ricondotta solamente a qualità morali e spirituali. Significativo è l’uso di continue similitudini e metafore con il mondo naturale, proprio allo scopo di rendere più evidente lo stretto legame tra amore e cor gentile. L’uso di queste analogie si proietta su uno sfondo filosofico: proprio per questo Guinizzelli fu accusato dai suoi contemporanei di «sottigliezze intellettualistiche». Ecco nel dettaglio la struttura della Canzone: 1 strofa: è preannunciato l’argomento della canzone: al cuore nobile (per virtù e non per natali) fa ritorno amore come alla sua sede naturale; nello stesso modo l’uccello si rifugia nel punto più nobile della selva. La nascita del cuore nobile e di amore è simultanea, così come lo sono il sole e il suo splendore, il calore del fuoco e la luce. 2 strofa: s’inizia la serie di similitudini desunte dal bagaglio scientifico: come la gemma viene purificata dal sole ma acquista valore solo dalla stella, così il cuore reso nobile dalla natura s’innamora grazie alla donna. 3 strofa: La natura di Amore è assimilata a quella del fuoco, il più leggero degli elementi, il quale, per questo motivo sta in cima alla torcia, risplendendovi a suo piacere luminoso e puro. Essa può essergli paragonata anche in senso negativo: l’iniquità avversa l’amore come il fuoco è contrastato dalla freddezza dell’acqua. 4 strofa: è chiarato come il cuore sia nobile per natura e non per nobiltà di nascita: così come il fango non può essere reso migliore dal sole. 5 strofa: Nella quinta strofa, della quale Dante si avvarrà per ideare la cosmologia del Paradiso, si precisa come l’intelligenza angelica che governa ognuno dei cieli, trae dalla contemplazione di Dio l’impulso a muovere il cielo a lei assegnato e , nel far ruotare il cielo, prende a ubbidire a Dio, ottenendo subito il compimento della propria beatitudine; allo stesso modo l’amante dovrebbe ottemperare ai desideri dell’amata. Congedo: Dio rimprovera al poeta di averlo usato come termine di paragone per un amore terreno e d’avere rivolto lodi alla donna riservate solo a Lui e alla vergine; l’unica giustificazione del poeta, sarà, allora, quella di aver amato una creatura di sembianza angelica. Di notevole interesse, a questo punto, è proprio la tenzone poetica tra Guinizzelli e il notaio e poeta Bonagiunta Orbicciani che accusa il suo collega di aver snaturato l’essenza della poesia, che dovrebbe essere per sua natura leggiadra e quindi lontana da qualsiasi oscurità del linguaggio, solo per affermare la propria superiorità come poeta, vv. 1-4: «Voi c’avete mutata la maniera / de li piacenti ditti de l’amore / del a forma dell’esser là dov’era, / per avansare ogn’altro trovatore». Di grande rilevanza, perché presenta temi e motivi che torneranno in Dante e Petrarca è il sonetto Io voglio del ver la mia donna lodare, leggiamo il testo: Io voglio del ver la mia donna laudare ed asembrarli la rosa e lo giglio: più che stella dïana splende e pare, e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio. Verde river’ a lei rasembro e l’âre, tutti color di fior’, giano e vermiglio, oro ed azzurro e ricche gioi per dare: medesmo Amor per lei rafina meglio. Passa per via adorna, e sì gentile ch’abassa orgoglio a cui dona salute, e fa ’l de nostra fé se non la crede; e no·lle pò apressare om che sia vile; ancor ve dirò c’ha maggior vertute: null’om pò mal pensar fin che la vede. La prima cosa sulla quale fermare l’attenzione è già nel primo verso. Guinizzelli inaugura quello che poi Dante svilupperà nella seconda parte della Vita Nova, ossia il tema della loda. Ma in che maniera viene risolta questa lode? Per prima cosa accostando la donna a vari aspetti della natura e in particolare è significativo l’accostamento alla rosa e al giglio, riferendosi all’incarnato del viso. Con il tempo la rosa e il giglio diventeranno dei figuranti, dei sostitutivi di una parte corporea della donna, in questo caso il colore del viso, e come tali saranno riutilizzati nei poeti successivi. Una seconda rilevante innovazione da parte di Guinizzelli è l’intera prima terzina («Passa per via adorna e sì gentile / ch’abassa orgoglio a cui dona salute / e fa ‘l de nostra fé se non la crede»), del quale sempre Dante si servirà in maniera veramente sfacciata per la composizione del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare. Qui la donna viene mostrata mentre cammina per la città e questo è un topos (luogo comune) che sarà riutilizzato dai poeti stilnovisti. Petrarca, al contrario, come vedremo più avanti nel corso, non ricorrerà mai a questo ma piuttosto troveremo laura sempre immersa nella natura. Passando per la via la donna ha una tale nobiltà che a chiunque rivolga il saluto riduce addirittura l’orgoglio, che nel medioevo era il peggiore dei peccati.