Guido Cavalcanti Nonostante la sua fama presso i contemporanei fosse pari a quella di Dante, poche notizie ci sono giunte sulla sua vita. Figlio di Cavalcante Cavalcanti, che Dante condannerà tra gli epicurei, Guido appartiene ad una delle più ricche famiglie fiorentine, schieratesi con i Guelfi. La prima testimonianza su di lui rimanda al 1267 quando, nell’ambito dei matrimoni combinati per ristabilire la pace tra le fazioni guelfe e ghibelline. Guido ebbe in moglie la figlia di Farinata degli Uberti. Nel 1284 fa parte, assieme a Brunetto Latini e Dino Compagni del Consiglio generale della città, per la quale è richiesta un’età minima di 25 anni. Questo permette di fissare la sua data di nascita nel decennio tra il 1250 e il 1260. Per un provvedimento del giugno del 1300, volto ad allontanare i capiparte di entrambe le fazioni per portare la pace in città, Guido viene confinato a Sarzana, dove morirà il 29 giugno per una malattia. Il corpus di Guido Cavalcanti è composto da 36 sonetti, 11 ballate, 2 canzoni, 2 stanze isolate di canzone, e da un mottetto. I testi di Cavalcanti sono assenti dai canzonieri delle Origini, dei quali abbiamo ampiamente parlato nelle lezioni precedenti (ad eccezione di Fresca rosa novella in Palatino 418 e Fresca rosa novella in Laurenziano Rediano 9). L’assenza dei suoi testi all’interno di un codice testimonia, probabilmente, l’assenza di un ordinamento d’autore delle sue rime (cosa che avveniva con Guittone e anche con Guinizzelli). Cavalcanti, quindi, non realizza un libro di rime. La maggior parte delle rime sono presenti nel Chigiano L VIII 305, conservato nella biblioteca Apostolica Vaticana, raccolta trecentesca di autori stilnovisti. Quindi, vista l’impossibilità di analizzare le rime di Cavalcanti secondo un ordinamento d’autore, per avere chiara la sequenza delle rime, prenderemo come riferimento l’ordinamento allestito da Guido Favati, nell’edizione delle rime: 1. Rime legate alla tradizione siciliana e guinizzelliana (i-iv) Fresca rosa novella, Avete ‘n vo’ li fior’ e la verdura, Biltà di donna e di saccente core, Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira 2. Motivo dello sbigottimento (v-ix) Li mie’ foll’occhi, che prima guardaro, Deh, spiriti miei, quando mi vedete, L’anima mia vilment’è sbigottita, Tu m’hai sì piena di dolor la mente, Io non pensava che lo cor giammai 3. Motivo del coro e dell’autocommiserazione (x-xviii) Vedete ch’i’ son un che vo piangendo, Poi che di doglia cor conven ch’i’ porti, Perché non fuoro a me gli occhi dispenti, Voi che per li occhi mi passaste ‘l core, Se m’ha del tutto obliato Merzede, Se Mercé fosse amica a’ miei disiri, A me stesso di me pietate vène, S’io prego questa donna che Pietate, Noi siàn le triste penne isbigotite 4. Rappresentazione mentale della donna come oggetto d’amore e sondaggi sulla potenza d’amore della donna (xix-xxviii) I’ prego voi che di dolor parlate, O tu, che porti nelli occhi sovente, O donna mia, non vedestù colui, Veder poteste, quando v’inscontrai, Io vidi li occhi dove Amor si mise, Un amoroso sguardo spiritale, Posso degli occhi miei novella dire, Veggio negli occhi de la donna mia, Donna me prega, Pegli occhi fere un spirito sottile 5. Motivo dell’introspezione e del dolore d’amore (xxix-xxxv) Una giovane donna di Tolosa, Era in penser d’amor quand’i’ trovai, Gli occhi di quella gentil foresetta, Quando di morte mi conven trar vita, Io temo, che la mia disaventura, La forte e nova mia disaventura, Perch’i’ no spero di tornar giammai 6. Rime di corrispondenza (xxxvi-xlv) Scambi di sonetti con Dante (xxxvi-xlii), Gianni Alfani, Bernardo da Bologna 7. La pastorella (xlvi) In un boschetto trova’ pasturella 8. Rime di corrispondenza di carattere comico (xlvii-lii) Scambio di sonetti con Guittone d’Arezzo, Guido Orlandi, Manetto Avevamo, parlando di Guinizzelli, indicato alcune caratteristiche innovative rispetto alla lirica precedente. Con Cavalcanti si accentua ancora di più il distacco con la lirica precedente e, al contrario, si creano le basi per la lirica successiva: «il definitivo superamento della dimensione cortese attraverso l’interiorizzazione del discorso lirico, la messa a punto dei tratti fondanti di un linguaggio poetico capace di resistere fino alle soglie della modernità, il dialogo costante e profondo con modelli filosofici e scritturali, sono infatti sostanziali conquiste della poesia cavalcantiana, che determinano molte delle successive opzioni dantesche e petrarchesche» (cfr. R. Rea, Introduzione a Guido Cavalcanti, Rime, Roma, Carocci, 2011, cit. p. 14). Il sonetto Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, sonetto noto in due redazioni differenti, segna un salto di qualità rispetto alle composizioni precedenti. Il testo, infatti, va ben oltre le intuizioni dell’avvento dell’amore o della perfezione inarrivabile della donna, attingendo una misteriosa ineffabilità del sentimento amoroso o degli effetti della bellezza di lei, ma già in quella prospettiva corale che sarà poi ripresa e sviluppata, come vedremo nella prossima lezione, da Dante nella Vita Nuova. Il nucleo più consistente dei suoi componimenti si raggruppa intorno ad alcuni macro-temi non del tutto estranei a Guinizzelli o a Dante, ma che in Cavalcanti assumono un’importanza ossessiva: il motivo della «morte», che ritroviamo in numerosi sonetti, Cavalcanti fu il primo a comparare amore e morte nella poesia italiana; il motivo dello «sbigottimento», ossia la descrizione del violento sgomento che prende il poeta alla sola visione della donna, tanto che la bellezza di quella visione sarà talmente forte da superare la capacità intellettive dell’io poetico. La tematica dello sguardo è molto forte in Cavalcanti tanto da creare una propria fisiologia della vista. Strettamente collegato allo sbigottimento è il tema degli «spiriti». Secondo la fisiologia aristotelica gli spiriti sono dei corpi sottili che hanno sede nel fegato, nel cuore e nel cervello. Sono, per Cavalcanti, la personificazione degli effetti della passione amorosa. Prima di leggere e commentare alcuni sonetti (cfr. gli audio della lezione) dobbiamo spendere del tempo sulla famosa canzone filosofica di Cavalcanti, Donna me prega (nonostante il testo non verr commentato nel corso della lezione su Cavalcanti, si consiglia comunque la lettura autonoma con l’aiuto delle fotocopie). La canzone è l’unico testo del repertorio lirico duecentesco italiano di cui sia stato fornito un commento: uno per mano del medico Dino del Garbo e l’altro di Egidio da Viterbo. La canzone fu molto celebre e celebrata come un’eccellente prova di poesia anche tra i contemporanei, come dimostrano le citazioni nel De vulgari eloquentia (cf. II xii 3) e da Petrarca nella canzone Lasso me, ch’io non so in qual parte pieghi (Rvf 70). La canzone di Cavalcanti si presenta molto difficile sia metricamente che nel contenuto (sono presenti tecnicismi, ellissi, perifrasi), per questo non devono stupire le diverse interpretazione proprio dei commentatori antichi proprio nell’interpretazione generale del testo. Ecco un riassunto dell’ipotesi di parafrasi della canzone apportata da Giorgio Inglese, (cfr. Guido Cavalcanti, Rime, a c. di R. Rea e G. Inglese, cit. p. 149-151. I stanza: proemio di tutta la canzone, il poeta dice che, per invito di una donna (potrebbe trattarsi della donna amata oppure, ipotesi più probabile, della personificazione della Filosofia), intende parlare di un “accidente” (v. 2), che spesso è crudele e potente, che è chiamato “amore”. L’autore esige un lettore competente (cioè un interlocutore colto, che abbia sperimentato in prima persona la passione amorosa), poiché egli non si aspetta di certo che una persona ignorante possa comprendere il suo ragionamento, infatti non ha nessuna intenzione di spiegare senza natural dimostramento (v. 8), quindi senza u’ argomentazione secondo i metodi propri della filosofia naturale, le (otto) proprietà dell’amore: dove sia la sua sede, da che cosa sia originato, quale sia la sua virtù e quale la sua potenza, in che cosa consista la sua essenza, quali siano le alterazioni che provoca e il piacere che lo fa chiamare “amare” e se lo si possa mostrare alla vista. II stanza: amore ha origine e risiede in quella parte dove sta la memoria (che secondo la filosofia aristotelica è una potenza dell’anima sensitiva: è, infatti, nella memoria che si fissa l’immagine sensibile della donna amata). L’amore è attuato, nello stesso modo in cui la trasparenza viene messa in atto dalla luce, da un influsso oscuro che proviene dal pianeta Marte. Esso è creato da una sensazione, è la denominazione di una operazione dell’anima e di una volontà del cuore. Viene da un’immagine percepita dalla vista che si insedia nella memoria, e che, una volta purificata e universalizzata va a collocarsi nell’intelletto possibile, come nel proprio sostrato. La passione amorosa non ha luogo nell’intelletto possibile perché l’intelletto, a differenza dell’anima sensitiva, non discende dalle qualità. Sull’intelletto possibile risplende l’atto eterno dell’intelletto agente, che agisce sull’intelletto potenziale come la luce, la quale trasforma i colori in potenza, al buio, in colori in atto. III stanza: l’amore non è una virtù morale, ma viene da quella virtù che è perfezione, non l’anima razionale, ma la sensitiva. L’amore mantiene il giudizio morale fuori dalla salute, poiché l’intentio (l’immagine impressa nella memoria) prevale sulla ragione, sulla razionalità: colui a cui è amico il vizio, non riesce più a discernere il bene dal male. Dalla potenza dell’amore consegue spesso la morte (nel senso di cessazione dell’attività intellettuale, ogni volta venga impedita la facoltà che opera in direzione contraria, ossia la facoltà che permette di stabilire un prolungamento con l’intelletto e di raggiungere il sommo bene, l’unica possibile felicità per l’uomo, costituita dall’intellezione. Questo non perché l’amore sia opposto allo spirito naturale (quindi non perché vada contro natura), ma perché un uomo, distolto dalla felicità perfetta per una causa accidentale, non può dire che abbia vita, in quanto non possiede più un sicuro dominio su di sé. IV strofa: Cavalcanti dice che l’essenza dell’amore consiste in un desiderio che va che oltrepassa ogni limite naturale, senza trovare mai appagamento. Cambiando il colorito dell’amante, trasforma il riso in pianto e ne sconvolge l’aspetto per la paura. Il grado più alto della passione lo si trova nei cuori gentili. La nuova condizione produce sospiri e vuole che l’uomo contempli una certa forma immaginata e si accende l’ira e si infiamma. Chi non lo prova, non può immaginarsela. L’amore vuole che l’amante resti immobile, per quanto è attratto verso quell’oggetto e nemmeno si volti, per trovare in ciò sollievo; né, certo, (l’amante) dispone ancora della propria saggezza, grande o piccola V stanza: il poeta dice che da una persona di temperamento simile al proprio, dunque altrettanto nobile, proviene uno sguardo che fa sembrare il piacere sicuro. L’amore non può stare nascosto quando è congiunto all’amante. Non sono le donne rustiche, a ferire, dal momento che tale desiderio è sperimentato dal temere, è alimentato dall’ostacolo, dalla paura di fallire. L’amore non si può conoscere, non può essere percepito attraverso la vista. L’anima sensitiva non si vede, come sa chi ben aude, dunque tanto meno l’amore, che è una passione che proviene da essa. L’amore privo di colore, privo della possibilità di essere diviso, insediato in una materia scura, respinge la luce. Ora Cavalcanti sottolinea la propria sincerità fuori da ogni possibile inganno Congedo: il poeta si rivolge alla propria canzone, dicendole che ora può andare sicura dovunque le piaccia; egli l’ha adornata in maniera tale, che il discorso contenuto in essa può essere apprezzato dai sapienti. Di stare con le altre persone (che non siano dotte), la sua canzone non ha alcuna intenzione.