Boneschi, M: Non tutti a casa (Poveri ma belli, p. ) Non tutti a casa “Qualcuno dei miei lettori credeva che i campi di concentramento nazisti fossero un parto della mia fantasia,” scrive Ricciardetto (pseudonimo di Augusto Guerriero), commentatore di politica estera su “Epoca” e sul “Mondo”. Ricciardetto conduce una lunga battaglia contro l’ignoranza e l’incredulità: “Credono che i campi di concentramento sovietici me li sia inventati io”. La lunga corrispondenza tra Ricciardetto e i lettori si affievolisce (si attenua) solo con il passare del tempo, man mano che le prove dell’esistenza dei lager – chiusi per cessato nazismo – e dei gulag – tragicamente funzionanti anche dopo la fine dello stalinismo – diventano concrete e palesi. Se i sopravvissuti dei campi di concentramento e di sterminio tedeschi tornano e raccontano, i prigionieri italiani in Russia impiegano più tempo a riconquistare la libertà. Molti, decine di migliaia, muoiono laggiù. Muoiono, incuranti del fatto che nel ’52 Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano, dichiara: “So per certo che non ci sono più prigionieri italiani in URSS”. Nel ’53 è a Roma Valentin Gonzales, eroe comunista della guerra di Spagna. Contraddicendo il compagno Togliatti, Gonzales conferma che di prigionieri italiani in Russia ce ne sono ancora, se (pricemz) nel ’46 – parola sua – erano 75 mila, dei quali 45 mila nei campi vicino a Mosca e Leningrado e 30 mila in Siberia. Qualcuno ritorna, mentre restano nell’angoscia decine di migliaia di famiglie. In ogni ceto (gruppo sociale) ci sono mogli che aspettano, non sanno se un morto o se un vivo, e ragazzi che conoscono il padre soltanto dalla foto in divisa di alpino (horskych vojaku). Nel salotto borghese il ritratto è racchiuso in una cornice d’argento, nella cucina contadina è appeso nudo e crudo, vicino all’immagine della Madonna, mentre una candela accesa simboleggia l’amore che non si spegne. Ai redivivi (= che si fa rivedere dopo molto tempo) dell’inferno bianco si strappano scarni brani di racconto. I russi non hanno alcun interesse a restituire i prigionieri che, dopo il ‘48, sono diventati ostaggi (rukojmi) della guerra fredda. La fragile copertura giuridica (chatrna pravni zasterka) per trattenerli a morire di stenti (= di sofferenze) è un processo per crimini di guerra.