Il linguaggio poetico nel duecento Esiste una grande differenza tra l’uso occasionale del volgare, come abbiamo visto nella lezione precedente, nei documenti giuridici, e il suo uso nella letteratura. L’impiego della lingua volgare nella poesia portò la nuova lingua a un livello più elevato, con una formalizzazione più complessa. In Italia la più remota produzione letteraria medievale in lingua volgare fu poetica: la prima scuola della quale abbiamo notizie certe e sistematiche fu quella siciliana, fiorita nel xiii secolo nell’ambiente della Magna curia di Federico II di Svevia, che aveva come centro principale la Sicilia. Altre due letterature romanze si erano già affermate: la francese in lingua d’oïl e la provenzale in lingua doc. Quest’ultima si era sviluppata nelle corti di Provenza e di Aquitania, poi la sua influenza si era estesa nell’Italia settentrionale. Troviamo, infatti, poeti di origine italiana che scrivono in provenzale imitando i trovatori. I poeti siciliani si comportarono allo stesso modo perché imitarono i provenzali ma, e qui sta l’innovazione, decisero di sostituire la lingua di origine con un volgare italiano, il volgare di Sicilia. Questa scelta dei poeti siciliani fu decisiva per la nostra tradizione poetica e per i futuri sviluppi linguistici. Ma per capire appieno la portata della scelta linguistica compiuta dalla cerchia di poeti intorno a Federico II conviene chiedersi prima di tutto perché essi adottarono l’idioma siciliano e non uno degli altri dialetti meridionali. Lo stesso Federico II scrisse in volgare siciliano nonostante non fosse siciliano di nascita, così come suggeriscono i cognomi di altri rimatori, basti pensare a Giacomino Pugliese e a Percivalle Doria che proveniva addirittura dalla liguria. Bisogna, quindi, pensare che la scrittura di testi, soprattutto lirici, in volgare, si inseriva nel quadro di una cultura già molto ricca e raffinata, dove si scriveva in un latino colto, come dimostra il trattato sulla caccia con il falcone (De arte venandi cum avibus) composto dallo stesso Federico, e dove confluivano interessi diversi in molti ambiti della cultura sia scientifica che letteraria. A quanto risulta dai non molti indizi cronologici in possesso degli studiosi, fu verso la fine degli anni venti o più probabilmente all’inizio egli anni trenta che la corte di Federico cominciò a coltivare anche la scrittura di poesia volgare. In alcune rime, infatti, troviamo delle indicazioni precise che riguardano avvenimenti storici: la canzone di Rinaldo d’Aquino, Giamai non mi conforto ha dei riferimenti alla crociata del 1227-8; la Tenzone di Giacomo da Lentini con l’abate di Tivoli può essere fatta risalire al 1241, data del soggiorno di Federico a Tivoli; mentre grazie a dei dati paleografici, il ritrovamento di un frammento della canzone Resplendiente di Giacomino Pugliese nella biblioteca di Zurigo può essere fatta risalire al periodo 1234-1235. La lingua della Scuola Siciliana Fra il 1234 e il 1235, quindi, un amanuense trascrisse su un foglio, in calce ad un documento giuridico, le prime quattro strofe della canzone Respendente di Giacomino Pugliese. Si tratta della più antica trascrizione di lirica siciliana giunta fino ai nostri giorni ed è relativamente vicina all’originale. Il problema della lingua della scuola siciliana non sarebbe così centrale se delle rime dei Siciliani avessimo, non tanto i manoscritti originali, quanto almeno delle copie risalenti allo stesso ambiente culturale e linguistico nel quale furono composte. In realtà la tradizione delle poesie volgari dei siciliani è quasi interamente affidata ai manoscritti toscani, compilati molti anni dopo, alla fine del duecento. Si tratta in particolare di tre canzonieri, dei quali parleremo in modo più approfondito più avanti, siglati dai filologi con le lettere L (Laurenziano Rediano), P (Palatino 418, della biblioteca Nazionale di Firenze, di origine pistoiese) e V (Vaticano Latino 3793, fiorentino). Qui i testi dei siciliani sono presentati con una veste linguistica toscanizzata e non rispecchiano, quindi, l’uso linguistico della corte di Federico. Ma qual era la lingua dei Siciliani? Nel cinquecento il filologo Giovanni Maria Barbieri, sollevò la questione della lingua dei siciliani, trascrivendo nel suo trattato l’Arte del rimare, da un testimone andato perduto, la canzone Pir meu cori allegrari e alcuni frammenti poetici di re Enzo e di Guido delle Colonne, in una versione linguistica tipicamente siciliana. Per chiarire meglio non sarà superfluo trascrivere una stanza di canzone di re Enzo sia nella veste linguistica siciliana sia nella versione toscaneggiante: La virtuti ch’ill’avi d’alcirim’ e guariri, a lingua dir nu l’ausu pir graan timanza c’aiu [nu lli sdigni; pirò precu suavi piatà chi mov’a giri e faza in lei ripausu La virtute ch’ell’ave d’aucidermi e guarire a lingua dir non l’oso per gran temenza c’aggio [non la sdigni; però prego soave pietà che mova a gire, e faccia in lei riposo Analizzando la stanza di canzone, notiamo, per esempio, la morfologia siciliana di alcune voci: virtuti, avi (ha), guariri (guarire), ausu (oso), sdigni (sdegni) accanto a voci latineggianti come placi, dove il normale esito siciliano sarebbe stato chiaci. È utile ricordare che la lingua con la quale i rimatori siciliani si esprimevano era un siciliano ‘’illustre’’ molto ricercato nel lessico, che ammetteva voci locali accanto a latinismi e soprattutto provenzalismi come: allegranza, disianza, coraggio. I poeti della scuola siciliana erano in grado, per necessità metriche, di usare sia il vocalismo siciliano sia quello latino. La tradizione testuale della lirica italiana, come abbiamo detto in precedenza, si costituisce in Toscana, alla fine del Duecento, con i tre canzonieri Vaticano, Laurenziano e Palatino, che trasmettono l’insieme della poesia siciliana. Canzoniere Palatino: è probabilmente il più antico dei tre ed è il meno esteso perché contiene solamente 180 testi. L’organizzazione della raccolta non segue un criterio lineare, soprattutto nel settore dove sono raggruppate le canzoni: dopo alcuni testi di Guittone d’Arezzo, i testi non sono più suddivisi per autore, ma sono disposti in ordine alfabetico della lettera iniziale del testo. Ed è proprio in questa sezione che si concentra il maggior numero di rime siciliane Canzoniere Laurenziano: si colloca cronologicamente tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento. È composto da 474 testi dei quali addirittura 274 sono di Guittone d’Arezzo. La disposizione dei testi segue un criterio metrico dove una prima sezione è dedicata alle lettere, poi ci sono sezioni dedicate alle canzoni e ai sonetti. Ciascuna sezione è aperte da un blocco compatto di testi di Guittone. Solo in chiusura di ciascuna sezione sono trascritte le raccolte che comprendono i testi dei siciliani. Il numero maggiore di testi è attribuito a Jacopo da Lentini. Canzoniere Vaticano: è la più importante delle tre raccolte di rime delle origini, comprendendo 1000 testi, divisi fra canzoni e sonetti. Costituisce il più ampio panorama della tradizione lirica prima di Dante e spesso per alcuni autori è anche l’unica testimonianza. È stato composto a Firenze fra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento. L’ordinamento è diviso (oltre che in canzoni e sonetti) per fascicoli, all’interno dei quali è attuato un sistema gerarchico, anche solo per la quantità delle rime di un autore. I primi fascicoli di ogni sezioni sono dedicati a Jacomo da Lentini. Con la morte di Federico II si esaurì anche la poesia siciliana. La sua eredità, sia formale che linguistica, passò in Toscana e a Bologna, con i cosiddetti poeti siculo-toscani. In tutti i poeti del Duecento si ritrovano in modo quantitativamente rilevante sicilianismi e gallicismi. Tra i sicilianismi si possono notare le -i finali al posto di -e n sostantivi singolari come colori, valori e nella terza persona singolare presente dei verbi, per fare l’esempio più comune il tipo ardi ‘arde’. Alcuni di questi tratti siciliani passarono anche alla poesia stilnovista a Dante fino a Petrarca, e da qui si diffusero in tutta la tradizione poetica italiana. La stessa origine hanno altre forme che spesso si incontrano nella tradizione poetica, come i condizionali in -ìa (crederìa al posto di crederei), gli imperfetti in -ia, per esempio avia per avevo. Possiamo dire, quindi, che in Toscana si stava immettendo nella lingua locale tutta la tradizione lirica precedete, prendendo qualcosa sia dai poeti provenzali che dalla scuola siciliana. In Guido Guinizzelli, per fare un esempio, che è considerato il padre del nuovo modo di fare poesia, sia dal punto di vista linguistico che stilistico, troviamo gallicismi come riviera (fiume), rempaira (ritorna) o forme siciliane come saccio (so) aggio (ho), feruto (ferito). Anche nei due poeti maggiori del periodo, Dante e Cavalcanti, troviamo le stesse forme siciliane e provenzali. Ma nonostante questi punti di contatto, la novità del linguaggio stilnovista fu immediatamente percepita da un rappresentante della lirica tradizionale come Bonagiunta Orbicciani che, in un sonetto famoso indirizzato a Guido Guinizzelli (Voi ch’avete mutata la mainera / de li piagenti ditti de l’amore = Voi che avete cambiato i modi dei piacevoli detti d’amore rimproverò ai poeti più giovani uno stile da oscuro e difficile. D’altra parte proprio la perizia nei ragionamenti sottili e nelle disquisizioni filosofiche, tralasciate le vuote formule della poesia d’amore tradizionale, era ritenuta un motivo di vanto dagli stilnovisti. Guido Cavalcanti, per esempio, amico di Dante Alighieri e più vecchio di lui di qualche anno, rivolse un sonetto di scherno a Guittone d’Arezzo (Da più a uno face un sollegismo) nel quale lo accusava di non saper costruire una sia pur semplice argomentazione. Molti anni più tardi Dante Alighieri, tracciando un bilancio delle proprie esperienze giovanili nel xxiv canto del Purgatorio, indicò proprio attraverso le parole di Bonagiunta il momento che aveva definitivamente separato le esperienze poetiche del primo Duecento da quelle successive. Gli stilnovisti adottarono una lingua a base fiorentina priva di espressioni marcatamente locali e popolari. Anche per questo motivo lo stilnovismo segna, in un certo senso, lo spartiacque fra la lirica antica e quella moderna. La poesia del primo Duecento, infatti, è per molti versi lontana dalla nostra sensibilità, e appare oggi linguisticamente arcaica e municipale. Al contrario, proprio a causa della sua fiorentinità e per il suo linguaggio ricercato, la poesia stilnovista apparemcome il naturale punto d’origine della linea ‘alta’ della lirica italiana, che proseguirà poi con Petrarca e sarà, come vedremo, codificata da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525). La lingua della prosa nel duecento Confrontata con l’alto sviluppo della poesia, la prosa del duecento appare in netto ritardo. Se si prende come esempio il testo narrativo più interessante del periodo, del quale parleremo più avanti in modo più approfondito, ossia il Novellino, si può osservare una prosa sintatticamente semplice. Bisogna sempre tenere in considerazione il fatto che a questa altezza cronologica il latino detiene ancora il primato assoluto, almeno nel campo della prosa, come strumento di comunicazione scritta e di cultura: si pensi che sono in latino tutti i documenti giuridici, amministrativi, contabili, oltre che alle scritture filosofiche, religiose e mediche. Naturalmente spesso avviene che questo uso del latino assuma forme domestiche, nelle quali affiorano tracce di lingua volgare. Il questo periodo molto importante è anche l’influenza della lingua francese: basti pensare alla stesura originale del libro di viaggio il Milione di Marco Polo che ebbe un successo notevole. Dalla lingua francese fu influenzato anche il maestro di Dante Alighieri: Brunetto Latini. Il Novellino Il Novellino è molto importante per la prosa dell’Italiano antico, in quanto è il primo esempio di testo narrativo con intenti artistici. Il genere è la novella, ossia il racconto. È scritto per lo più in lingua fiorentina e gli è stato riconosciuto fin da subito il merito di una buona qualità letteraria. Il testo, che è anonimo, presenta subito un problema filologico di notevole interesse. Spieghiamolo brevemente: il testo che oggi comunemente leggiamo non è legato ai codici antichi che ci hanno trasmesso le novelle, ma alla stampa cinquecentesca. Il Cinquecento fu un secolo importantissimo per questo libro. Il titolo che noi leggiamo comunemente oggi, ossia Novellino, risale al 1525 ed è stato usato da Giovanni Della Casa in una lettera a Gualteruzzi, che è stato il primo editore del testo. Nel 1523 il letterato Giulio Camillo Delminio fece fare una copia manoscritta dell’opera basandosi proprio sulla stampa di Gualteruzzi. I filologi, dopo attenti studio, hanno accettato come testo principale proprio quello della stampa del 1525 e dal manoscritto del 1523. Ma quale era la lingua del Novellino? Intanto possiamo dire che questo testo è la prima prosa novellistica italiana, che è fiorentina e che Firenze, come vedremo, stabilirà un primato proprio grazie alla novella: basti pensare, come vedremo, a Boccaccio. Frequente è l’uso di termini toscani come acconciare (preparare), sovenire (sostenere). L’espressione acciò che (poiché) e però che (poiché). Interessanti sono i ricorsi a termini tecnici presi in modo dell’accademia: provato è (dimostrato), capitolo (argomento), chiosa (commento).