Dante primo teorico del volgare Dante è considerato, non a torto, il padre della lingua italiana. Ma accanto alla sua prassi linguistica che emerge chiaramente dalla Commedia, come vedremo nella prossima lezione, Dante è stato il primo a riflettere sul linguaggio volgare e a riflettere sulla lingua italiana. Dante lo fa in due opere, scritte si pensa tra il 1304 e il 1307 e non portate a termine: il Convivio e il De volgari eloquentia. Il Convivio è un trattato filosofico scientifico concepito come commento in prosa di canzoni dottrinali. Il progetto originario era molto più ampio. Nell’idea di Dante prevedeva quindici trattati di cui il primo introduttivo e gli altri di commento ad altrettante canzoni, che però non furono mai state scritte da Dante: il libro, infatti, si ferma al quarto trattato con il commento a sole tre canzoni. Una prima diffusione dell’opera avvenne dopo la morte dell’autore; ma la prima edizione a stampa si ebbe a Firenze nel 1490. Il primo trattato, che qui ci interessa maggiormente, è dedicato a giustificare il fine e il titolo dell’opera e, in parte, a giustificare l’uso del volgare. Perché, non va mai dimenticato, era ovvio per chi volesse scrivere un trattato enciclopedico o filosofico o scientifico usare il latino. Dante ci dice di aver scritto in volgare per tre ragioni: la prima è quella che chiama desiderio di liberalitate, ossia per rivolgersi ad un pubblico che sia il più ampio possibile. Convivio, del resto, fa proprio riferimento ad un banchetto intellettuale. Il secondo motivo è legata alla cautela di disconvenevole ordinazione: l’opera consiste nel commento di tre canzoni in volgare è quindi giusto che la lingua usata sia il volgare. Ma la ragione che ci interessa di più è la terza: il naturale amore per la propria loquela (lo naturale amore per la propria loquela). Dante presenta alcuni motivi dell’amore per la propria lingua volgare e soprattutto presenta alcuni benefici avuti da essa: quella di aver favorito la sua nascita e quello di averlo introdotto, ancor prima del latino, sulla strada del sapere. Questo è molto significativo che Dante lo proclami con tanta nettezza: ha scritto in volgare perché vuole celebrare ln volgare e celebrare la sua capacità di espressione accanto al latino, alla lingua abituale di qualunque mediazione dotta. Ma la questione della lingua viene trattata da Dante in modo più specifico in un trattato, scritto questa volta in latino, perché Dante desidera rivolgersi ai dotti e non a tutti: il De vulgari eloquentia (l’arte di parlare in volgare). Il libro prende il titolo non da precise indicazioni dantesche ma dal riferimento che Dante fa all’opera proprio nel Convivio: «Di questo [variabilità del volgare] si parlerà altrove più compiutamente in un libello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza» (cfr., Convivio, i, v, 10). Sono state quindi accolte le parole di Dante e non hanno avuto credito i titoli riportati dalla tradizione manoscritta. Il progetto originario del libro comprendeva almeno quattro libri, con l’analisi dei vari livelli stilistici e delle possibili forme di uso letterario del volgare. Dante interruppe bruscamente l’opera la capitolo xiv del secondo libro, probabilmente per lavorare sul progetto della Commedia. Ma torniamo a dire qualcosa sulle teorie del volgare nel libro.[ ]Dante è alla ricerca di quello che lui chiama il volgare illustre destinato a servire alla grande poesia, ossia alla poesia elevata sia come temi e come lingua. Una poesia, come quella degli stilnovisti, che si distacchi da tutto ciò che è vile e quotidiano. Ma prima di teorizzare il volgare illustre Dante passa in rassegna, ed è la prima volta che questo accade, i vari dialetti italiani con l’idea di dimostrare che nessun dialetto può aspirare al ruolo di volgare illustre, tracciando addirittura una cartina geografica dei volgari italiani: una cartina che è considerata ancora oggi dai dialettologi conforme alla realtà linguistica italiana. Ai suoi occhi, come possiamo vedere dalla cartina, appare evidente una divisione fondamentale tra versante destro e sinistro della penisola Italiana. E secondo questa linea ideale vengono passati in rassegna tutti e quattordici volgari o dialetti parlati nelle varie regioni italiani. I quali, tuttavia, dice Dante essere solo i ceppi principali. Proprio perché Dante ha coscienza della frammentazione linguistica italiana si pone la necessità di individuare un volgare illustre e sovraregionale. Tra questi dialetti, uno è trattato particolarmente male, e questo è sorprendente, il volgare fiorentino. Dante, infatti, per dimostrare la rozzezza del fiorentino ricorre ad una frasetta manichiamo introcque che noi non facciamo altro (mangiamo intanto perché noi non facciamo altro), in riferimento al fiorentino rappresentato come goloso. Ma il fatto interessante è che queste sono due parole che troviamo però nell’Inferno (canto del conte Ugolino). Come mai ci chiediamo? Per una contraddizione di Dante? No perché la commedia è scritta non in un volgare illustre ma in un volgare comico, che non vuol dire divertente come potremmo immaginare oggi ma vuol dire medio. Infatti la Commedia, come vedremo, ha come novità linguistica proprio quella di svariare dai livelli molto alti e selezionati, per esempio del paradiso, anche a livelli molto bassi. Nella commedia ci sono anche quelle che oggi potremmo chiamare parolacce. Il volgare illustre, quindi, non è quello della Commedia ma quello delle canzoni e quello della poesia. Il plurilinguismo della Commedia La Commedia o Divina commedia, ma il titolo non è dantesco e si fissa nel 500, è il testo che ha reso Dante noto in tutto il mondo. Questo perché la commedia segna una serie di novità espressive da vari punti di vista. Partiamo dalla struttura metrica: l’uso della famosa terzina dantesca, ossia quel particolare tipo di verso di endecasillabi con rime incatenate, è una innovazione di Dante. Ma anche dal punto di vista stilistico ci sono delle novità rispetto alla poetica medievale, per esempio la ripresa in grande forma delle similitudini. Le similitudini esistevano già nella poesia latina ma erano andate via via decadendo nel corso del medioevo. I trattati medievali di poesia, infatti, invitavano a non usare troppo le similitudini o di usarle con molta cautela e prudenza. Le similitudini, al contrario, hanno una grande importanza nella Commedia (ne sono state contate circa 500). Alcune di queste similitudini sono molto note; pensiamo alle similitudini uccelline che contrassegnano il v canto dell’inferno, vv. 40-42 e 46-48: «E come li stornei ne portan l’ali nel freddo tempo a schiera larga e piena così quel fiato li spiriti mali»; «E come i gru van cantando lor lai, facendo in aere di sé lunga riga, così vidi venir, traendo guai». Ma qual è la lingua usate da Dante? Non possiamo dare una risposta precisa a questa domanda perché non abbiamo un autografo della commedia. Abbiamo, al contrario, una tradizione manoscritta estremamente numerosa (abbiamo circa 800 manoscritti che trasmettono il testo completo, una cifra straordinaria se pensiamo ai molti che saranno inevitabilmente andati perduti). Oltre alla complessità testuale bisogna tener conto del fatto che la tradizione della Commedia è una tradizione contaminata: i copisti non si limitavano a trascrivere dal loro modello, ma spesso collazionavano il testo con altre versioni o si richiamavano ad alcuni parti del testo che avevano studiato a memoria. Possiamo, però, risalire all’uso linguistico di Dante utilizzando le parole in rima, che non possono facilmente essere cambiate perché sono legate a un preciso vincolo metrico. Facciamo un esempio: nell’italiano antico si poteva dire cada come congiuntivo del verbo cadere ma anche caggia. In rima noi siamo sicuri di non sbagliare. Nei versi 127-29 del ventesimo canto del Purgatorio, quando si parla del terremoto che annuncia la partenza di un’anima al paradiso, troviamo: «qund’io senti’, come cosa che cada, tremar lo monte; onde mi prese un gelo qual prender suol colui ch’a morte vada». Qui non abbiamo dubbi che Dante abbia usato la parola cada in rima con vada perché la rima cadrebbe se ci fosse la parola caggia. Dante, quindi, scrive in fiorentino ma è un fiorentino aperto a rapporti di altra provenienza. Si parla, infatti, per la Commedia di plurilinguismo ossia di gusto per l’uso di diversi livelli linguistici e diverse lingue. Troviamo il latino: nel canto xv del Paradiso Cacciaguida, il trisavolo di Dante, si rivolge a lui con versi in latino, vv. 28-30: «O sanguis meus, o superinfusa gratïa Dei, sicut tibi cui bis unquam celi ianüa reclusa?». Un grande poeta provenzale, che Dante incontra nel purgatorio si rivolge a lui proprio in provenzale. Sono tantissime le parole che hanno una prima attestazione in italiano grazie a Dante Alighieri. Tra queste sono particolarmente importanti i latinismi. Ossia, come abbiamo più volte detto, quella parole attinte dai libri. Facciamo un esempio, tra i tanti che potremmo fare, dal canto sesto del Paradiso, che è particolarmente ricco di latinismi, vv. 49-51: Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi che di retro ad Anibale passaro l’alpestre rocce, Po, di che tu labi. Questo labi dal verbo latino labor, che vuol dire scorro. Ma aggiungo un altro dato importante. La commedia è forse il primo testo che ci offre significativi esempi di dialogo. Perché dante nella varietà delle situazioni rappresenta anche dialoghi che sono più fitti, come potremmo aspettarci, nell’Inferno. Facciamo, anche in questo caso, un esempio: nel decimo canto Virgilio stimola dante con un’espressione che anche oggi a noi parrebbe spontanea e che potremmo usare, vv. 31-33: Ed el mi disse: «Volgiti: che fai? Vedi là Farinata ches’è dritto: dalla cintola in su tutto ’l vedrai». Volgiti, che fai? vedi là Farinata (non vuol dire che cosa stai facendo ma è una formula molto comune per stimolare qualcuno a prendere una iniziativa. Questo per far notare che alcune caratteristiche della lingua italiana sono già presenti in Dante e per mostrare la grande ricchezza linguistica della Commedia.