La Scuola siciliana La nascita della lirica volgare italiana viene fatta risalire agli esperimenti della scuola siciliana, che si sviluppa nella prima metà del Duecento, intorno alla figura di un monarca colto e potente come Federico ii di Svevia (1194-1250). La scrittura di testi, soprattutto lirici, in volgare, si inseriva nel quadro di una cultura già molto ricca e raffinata, dove si scriveva in un latino colto, come dimostra il trattato sulla caccia con il falcone (De arte venandi cum avibus) composto dallo stesso Federico, e dove confluivano interessi diversi in molti ambiti della cultura sia scientifica che letteraria. A quanto risulta dai non molti indizi cronologici in possesso degli studiosi, fu verso la fine degli anni venti o più probabilmente all’inizio egli anni trenta che la corte di Federico cominciò a coltivare anche la scrittura di poesia volgare. In alcune rime, infatti, troviamo delle indicazioni precise che riguardano avvenimenti storici: la canzone di Rinaldo d’Aquino, Giamai non mi conforto ha dei riferimenti alla crociata del 1227-8; la Tenzone di Giacomo da Lentini con l’abate di Tivoli può essere fatta risalire al 1241, data del soggiorno di Federico a Tivoli; mentre grazie a dei dati paleografici, il ritrovamento di un frammento della canzone Resplendiente di Giacomino Pugliese nella biblioteca di Zurigo può essere fatta risalire al periodo 1234-1235. La lingua della Scuola Siciliana Fra il 1234 e il 1235, quindi, un amanuense trascrisse su un foglio, in calce ad un documento giuridico, le prime quattro strofe della canzone Respendente di Giacomino Pugliese. Si tratta della più antica trascrizione di lirica siciliana giunta fino ai nostri giorni ed è relativamente vicina all’originale. Il problema della lingua della scuola siciliana non sarebbe così centrale se delle rime dei Siciliani avessimo, non tanto i manoscritti originali, quanto almeno delle copie risalenti allo stesso ambiente culturale e linguistico nel quale furono composte. In realtà la tradizione delle poesie volgari dei siciliani è quasi interamente affidata ai manoscritti toscani, compilati molti anni dopo, alla fine del duecento. Si tratta in particolare di tre canzonieri, dei quali parleremo in modo più approfondito più avanti, siglati dai filologi con le lettere L (Laurenziano Rediano), P (Palatino 418, della biblioteca Nazionale di Firenze, di origine pistoiese) e V (Vaticano Latino 3793, fiorentino). Qui i testi dei siciliani sono presentati con una veste linguistica toscanizzata e non rispecchiano, quindi, l’uso linguistico della corte di Federico. Ma qual era la lingua dei Siciliani? Nel cinquecento il filologo Giovanni Maria Barbieri, sollevò la questione della lingua dei siciliani, trascrivendo nel suo trattato l’Arte del rimare, da un testimone andato perduto, la canzone Pir meu cori allegrari e alcuni frammenti poetici di re Enzo e di Guido delle Colonne, in una versione linguistica tipicamente siciliana. Per chiarire meglio non sarà superfluo trascrivere una stanza di canzone di re Enzo sia nella veste linguistica siciliana sia nella versione toscaneggiante: La virtuti ch’ill’avi d’alcirim’ e guariri, a lingua dir nu l’ausu pir graan timanza c’aiu [nu lli sdigni; pirò precu suavi piatà chi mov’a giri e faza in lei ripausu La virtute ch’ell’ave d’aucidermi e guarire a lingua dir non l’oso per gran temenza c’aggio [non la sdigni; però prego soave pietà che mova a gire, e faccia in lei riposo Analizzando la stanza di canzone, notiamo, per esempio, la morfologia siciliana di alcune voci: virtuti, avi (ha), guariri (guarire), ausu (oso), sdigni (sdegni) accanto a voci latineggianti come placi, dove il normale esito siciliano sarebbe stato chiaci. È utile ricordare che la lingua con la quale i rimatori siciliani si esprimevano era un siciliano ‘’illustre’’ molto ricercato nel lessico, che ammetteva voci locali accanto a latinismi e soprattutto provenzalismi come: allegranza, disianza, coraggio. I poeti della scuola siciliana erano in grado, per necessità metriche, di usare sia il vocalismo siciliano sia quello latino. La tradizione testuale della scuola siciliana La tradizione testuale della lirica italiana, come abbiamo detto in precedenza, si costituisce in Toscana, alla fine del Duecento, con i tre canzonieri Vaticano, Laurenziano e Palatino, che trasmettono l’insieme della poesia siciliana. Canzoniere Palatino: è probabilmente il più antico dei tre ed è il meno esteso perché contiene solamente 180 testi. L’organizzazione della raccolta non segue un criterio lineare, soprattutto nel settore dove sono raggruppate le canzoni: dopo alcuni testi di Guittone d’Arezzo, del quale parleremo più avanti, i testi non sono più suddivisi per autore, ma sono disposti in ordine alfabetico della lettera iniziale del testo. Ed è proprio in questa sezione che si concentra il maggior numero di rime siciliane Canzoniere Laurenziano: si colloca cronologicamente tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento. È composto da 474 testi dei quali addirittura 274 sono di Guittone d’Arezzo. La disposizione dei testi segue un criterio metrico dove una prima sezione è dedicata alle lettere, poi ci sono sezioni dedicate alle canzoni e ai sonetti. Ciascuna sezione è aperte da un blocco compatto di testi di Guittone. Solo in chiusura di ciascuna sezione sono trascritte le raccolte che comprendono i testi dei siciliani. Il numero maggiore di testi è attribuito a Jacopo da Lentini. Canzoniere Vaticano: è la più importante delle tre raccolte di rime delle origini, comprendendo 1000 testi, divisi fra canzoni e sonetti. Costituisce il più ampio panorama della tradizione lirica prima di Dante e spesso per alcuni autori è anche l’unica testimonianza. È stato composto a Firenze fra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento. L’ordinamento è diviso (oltre che in canzoni e sonetti) per fascicoli, all’interno dei quali è attuato un sistema gerarchico, anche solo per la quantità delle rime di un autore. I primi fascicoli di ogni sezioni sono dedicati a Jacomo da Lentini.